Inserto economico di 
 

09/12/2012

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12 settembre 2012. Una giornata turbolenta, muore l’Ambasciatore americano in Libia, insieme ad altri funzionari e marines; il Maghreb intero è sconvolto da scontri di piazza e attacchi ai fragilissimi palazzi del potere neo costituito. Il casus belli è un film sconosciuto, opera di un regista ebreo israeliano altrettanto ignoto, che tratta di un Islam che conosce solo lui; e ne parla come fosse un cancro. Ma questo è appunto solo il casus belli. Da Tripoli al Cairo la tensione è alta, attacchi mirati minacciano le fondamenta già precarie di democrazie allo stato primitivo. Democrazie su cui, come è evidente, gli Usa perdono sempre di più la loro influenza. Ciò non significa che esse siano orientate verso estremismi di vario genere, ma bensì che la loro peculiarità diventa un forte nazionalismo interno, soprattutto in Egitto, paese ostile a qualsiasi voce esterna, compresa Al Qaeda. E’ infatti l’organizzazione terroristica che fa capo al medico egiziano,  Ayman al-Zawahiri,  ad aver rivendicato l’attentato in cui è rimasto vittima, tra gli altri, l’ambasciatore Stevens.  Al Qaeda perde influenza su questi stati almeno tanto quanto Washington. Il diplomatico americano è stato un obiettivo chiaro, un profondo conoscitore del mondo arabo, un entusiasta dei movimenti rivoluzionari che avevano portato ad un cambio di regime. Nonostante perda influenza, Al Qaeda conserva in questi paesi diversi contatti, ramificazioni sottili, ma tuttavia insidiose, che fanno capo a certe frange della corrente salafita, ciò accade perlopiù in Egitto. Un assaggio di questo nuovo snobismo nazionalista, lo abbiamo avuto oggi in occasione di una dichiarazione del Presidente egiziano, Mohammed Morsi. In una conferenza congiunta con il Presidente della Commissione Ue Barroso, Morsi ha condannato, come era prevedibile, gli attacchi al consolato americano a Bengasi, ma ha ribadito un concetto chiaro: Maometto, il Profeta, è una linea rossa che non è consentito travalicare. Ciò non significa che il Presidente egiziano giustifichi l’attentato, che si schieri da una parte anziché dall’altra, tutt’altro. Morsi ribadisce una conditio sine qua non, di cui l’Occidente, diplomatico e non, dovrà tenere conto. Questa non è più l’epoca dei piedi in testa. Come a dire “ ora facciamo di testa nostra “. 


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Sta cambiando tutto insomma, e molto in fretta. E non serve un attentato per capirlo. A fine agosto si è tenuta a Teheran la Conferenza dei Paesi non allineati, i famosi terzomondisti, la si potrebbe definire una delle tante scorie di guerra fredda, ma in Medio Oriente tutto è ancora “Guerra Fredda”.   Nella capitale degli Ayatollah sono arrivati leaders e delegazioni da tutto il pianeta, e tra loro c’era anche Mohammed Morsi. Una presenza significativa dato che non accadeva da più di trent’anni che un Presidente egiziano mettesse piede in Iran. E a Teheran Morsi non ha usato mezzi termini, non si è schierato senza se e senza ma con la causa iraniana, ma nemmeno contro. Ha invece avuto il coraggio di condannare le violenze in Siria, definite oramai intollerabili.

Il caos è sotto gli occhi di tutti, è oggetto di inquietudine per tutti.

Non è più tempo di alleanze promiscue, di gentilezze diplomatiche, ognuno fa da sé e per sé. Lo stallo durerà, almeno per altri due mesi, Obama non può far molto, si va alle urne fra meno di due mesi. Mitt Romney lo attacca, anche piuttosto goffamente, ma il colpo da Bengasi il Presidente l’ha avvertito. Certo Obama non è Carter, certo la Libia di oggi non è l’Iran del ’79, ma di certo c’è solo questo.

Luca Orfanò





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