Era un banale giorno di lavoro per me, settembre; verso le 11.30 del mattino arriva un ragazzo in divisa, un tipo sui vent’anni, alto, sguardo profondo, fisico imponente, capello cortissimo… Cominciamo a chiacchierare e mi racconta che è un soldato, del fatto che prende molti soldi per stare lontano da casa e “dare una mano”, perché le missioni che fa sono tutte missioni di pace. Io mi sento orgoglioso, adesso conosco un militare, un ragazzo della mia età che dà una mano a chi sta peggio di noi …
21 febbraio 2012: versione ufficiale USA: “militare americano massacra 17 civili tra cui donne e bambini. Sgozzati. Bruciati.”
Sembra però che ci siano opinioni discordanti, fonti anonime del governo Karzai dicono che a sparare non sarebbe stato “un solo soldato”, ma addirittura un gruppo di militari ubriachi, che “ridendo” avrebbero sparato all’impazzata su uomini,donne e bambini. Senza pietà. Versione inoltre confermata da alcuni parenti delle vittime.
La notizia è smentita dal Pentagono… ovviamente.
Sì, perché se fossi uno che vede del marcio in tutto, e non lo sono, penserei che questi ragazzi americani, o meglio statunitensi, sono semplicemente dei bastardi che godono nell’uccidere.
Ma non sono uno che vede del marcio in tutto. Addirittura c’è chi dice che per insabbiare la faccenda il Pentagono avrebbe scelto questo povero soldato come capro espiatorio… ma figurati!
- 21 marzo 2011: il pastore Wayne Sapp brucia un corano in Florida.
- 12 gennaio 2012: quattro marines si divertono mentre URINANO su tre cadaveri talebani appena uccisi.
- 21 febbraio 2012: soldato in preda a un raptus massacra 17 civili e ne brucia alcuni
Curioso notare che il “giorno” è sempre formato dalle cifre 1 e 2. Ma questo è un altro film.
Quanto costa tenere dei pazzi scatenati oltreoceano al Pentagono?
In 10 anni oltre 500 miliardi di dollari. (500.000.000.000 $).
Meno male che ci sono anche soldati che aiutano invece che uccidere civili.
Quanto costa invece a noi italiani la “missione di pace” in Afghanistan? Più di 2 milioni di euro al giorno.
Sai quante caramelle ci compri con 2 milioni di euro in un giorno? Tante da farti venire almeno un bel mal di pancia.
Quante famiglie in difficoltà si aiutano con 2 milioni di euro al giorno? Quanti giovani potrebbero trovare lavoro con 2 milioni di euro al giorno? Quanti ospedali senza tetti che cadono si potrebbero costruire e mantenere con 2 milioni di euro al giorno? Quanta ricerca medica in più con 2 milioni di euro al giorno? Quanti giocattoli ai bambini negli orfanotrofi con 2 milioni di euro al giorno?
Pensi che mi stia ripetendo un po’ troppo? Beh allora conta fino a 2.000.000 ogni giorno e poi rifletti.
Dal 2002 c’è la “missione di pace”:
3000 soldati italiani.
Più di 4 miliardi di euro spesi fino ad oggi.
Quasi quasi vi comincio a dire cosa ci fate, con 4 miliardi di euro.
Luca Esatto
Obama, una specie rara
Guardando la scena politica mondiale da qualche anno a questa parte si può facilmente notare quanto essa conti poco tra i cittadini, nelle popolazioni regna la sfiducia nella politica, ovunque. Questa generale diffidenza nel governo della polìs è attribuibile a vari fattori, apparati statali che non funzionano, metodi di rappresentanza sempre meno rappresentativi. Però più che a questioni generiche e oggettive, il problema è umano. E’ riconducibile ai leader, che non sono più tali, comandanti di vascelli che non stanno a galla non tanto perché sfasciati, ma poiché al comando ci sono individui senza forza d’animo, privi di coraggio, incapaci di tenere il timone. Al giorno d’oggi un leader è solo un capo di Governo/ Stato, che tiene al suo futuro politico più che a quello del suo Paese. Ma quello per cui lotta, la poltrona a cui è aggrappato, le elezioni a cui costantemente pensa, non sono il suo futuro politico, rappresentano l’avvenire di un semplice impiegato, di alto rango, ma impiegato. Un leader deve avere la capacità di pensare prima e meglio degli altri, gestire situazioni con fermezza sì, ma accompagnata da buon senso. Un leader non deve vedere tutto, ma guardare ogni cosa. Insomma non è difficile capire cosa voglia dire essere un leader, uno statista di livello, sono innumerevoli i trattati politici e storici che lo descrivono sotto vari punti di vista, dal Principe di Machiavelli al Leviatano di Hobbes. Alcide De Gasperi diceva che la differenza tra uno statista e un politico è che lo statista guarda alle prossime generazioni, il politico alle prossime elezioni.
E’ arcinota questa frase dello statista, lui sì, italiano. Tuttavia se quarant’anni fa poteva sembrare un’acuta riflessione, un pensiero lungimirante, ora è un’ovvietà, un qualcosa di scontato, un’analisi formulabile da chiunque. E quella frase che ha fatto scuola è un luogo comune perché di statisti non ce ne sono più, o per essere ottimisti si contano sulle dita di due mani, mentre di politici da strapazzo ce n’è a volontà, come le zanzare in una palude. Qualche leader di grande livello sulla terra ancora c’è, ma si tratta di ultraottantenni ormai. Evitiamo un elenco che potrebbe suscitare polemiche di colore politico, ne cito due, sulla cui lealtà e dedizione, in modi diversi non credo ci sia nulla da obiettare. Nelson Mandela e Helmut Kohl, uomini di luoghi e culture diversi del pianeta, ma accomunati dall’amore per il proprio Paese, in misure certo differenti, e dalla consapevolezza dell’importanza cruciale del proprio ruolo per le generazioni future, due caratteristiche che a mio parere un leader deve indiscutibilmente possedere. Se guardiamo ai politici attuali, in tutto il mondo, uno di tale spessore non c’è. Sono tutti di gran lunga sotto una media accettabile per i motivi noti a tutti, ce n’è però uno migliore degli altri, il meno peggio, che però rapportato a quelli è davvero di un altro pianeta. Si tratta di Barack Obama, un leader con pregi e difetti, che però si equiparano in una giusta misura. E’ sulla carta l’uomo più potente della terra, ( e per la cronaca guadagna su per giù quanto un onorevole italiano) ogni giorno gestisce situazioni e prende decisioni di portata globale. Col suo predecessore abbiamo visto che il “come” prendere decisioni ha molti risvolti, economici e politici, ovunque nel mondo. Il Presidente USA è in carica da circa quattro anni, si potrebbe dire che ha fatto tutto e non ha concluso niente, ma sarebbe una visione miope del suo operato. Ha tentato di fare una riforma sanitaria che desse assistenza ad una parte della popolazione non tutelata, e se la Corte Suprema la giudicherà costituzionale, sarà l’unico ad esserci riuscito. E’ vero che non è una riforma completa, che non tutela tutti e via dicendo, ma chi si aspettava che Obama riformasse il sistema sanitario e altri sul modello del Welfare State scandinavo, è un ingenuo oltre che uno smemorato. Dobbiamo ricordarci che il Presidente americano è appunto il Capo di Stato di una nazione non certo famosa per l’attenzione alla giustizia sociale. Tutto e subito non si può ottenere, questa è la massima con cui lui governa la prima potenza mondiale. Ogni giorno tra la Casa Bianca e il Congresso si pratica la politica dello step by step, un passo alla volta, trattare, trattare e ancora trattare. Un dialogo e una contrattazione che certe volte con quegli ottusi buoi dei repubblicani può portare ad uno scatto di nervi, uno sfogo da prima pagina dei giornali, ed è già successo nell’agosto 2011.
L’estate scorsa infatti i falchi del GOP tentarono di tutto pur di non darla vinta a Obama, che tuttavia tanto ha concesso in merito alla trattativa sul rientro del deficit, forse troppo. Erano disposti persino a incorrere nel default nazionale, pur di screditare il nero-musulmano-socialista. Dal punto di vista internazionale l’afroamericano arrivato nello studio ovale si è trovato davanti niente di meno che due guerre. Di cui una è quasi archiviata, l’altra dovrebbe esserlo nell’arco di pochi anni. E’ stato l’unico presidente americano a non piegare la testa, sempre e pedissequamente, di fronte alle richieste talvolta al limite del paranormale di Israele. E’ un uomo che tratta Obama, un politico molto diplomatico. A mio parere il miglior ricordo del suo primo mandato è stato il discorso tenuto al Cairo nel 2009, forse è ancora troppo presto per finire nei libri di storia, ma ci arriverà. E’ stato un discorso di pace, di fratellanza aperto a tutti, in primis agli arabi e ai musulmani. E’ stata l’arringa del difensore della democrazia, non intesa con la molto poco pacifica idea di Enduring Freedom però, ma come pluralità di culture, e tutti quegli altri valori che Bush jr. non aveva studiato nemmeno a scuola. Prima ho parlato di primo mandato, sottintendendo che ce ne sarà di sicuro un secondo. E’ quello che credo, sono davvero piccole figure i concorrenti alla nomination repubblicana rispetto a Obama. E’ un dato di fatto, lo si evince dagli argomenti che trattano, gente fuori dal mondo, che parla a schemi, nemmeno poi tanto chiari. Questo non lo dicono e non lo pensano solo i democratici, o i “tifosi” di Obama, a dichiararlo è Barbara Bush, consorte di Bush senior, la quale sostiene di non aver mai visto primarie peggiori di queste, e qualcosa ne capirà questa donna che alla Casa Bianca c’ha passato dodici anni. Barack Obama è l’unico leader in circolazione, il solo con una visione politica di lungo periodo, che è ciò che serve agli Stati Uniti, ma anche ad ogni nazione della terra, compresa l’Europa, che continua a guardare Mamma America con le lacrime agli occhi e la bava alla bocca.
Luca Orfanò
Il giardino dell'impero
In continuazione si parla di Europa, eurogruppi vari, salvataggio della Grecia e di spread in tutte le salse. Bene, benissimo, ma a volte è bene fare qualche riflessione sul Belpaese, “mettere ordine nel giardino dell’impero”, ciò che si augurava già un certo Dante Alighieri, su per giù 800 anni fa. L’Italia esce da un periodo nero, ed entra in uno grigio. E’ stata salvata da un destino inimmaginabile, un disagio che la gente non ha provato in misura tanto grande quanto quello subito dagli amici greci. Ci è andata di lusso, sarà anche vero che si arranca a fine mese, che l’indicizzazione all’inflazione per i salari dei dipendenti pubblici è bloccata, ma a differenza di altri paesi, qui gli stipendi per la Pubblica Amministrazione ci sono, e per intero. Non ho detto che il tenore di vita sia tra i migliori, che le cose vadano a gonfie vele, ma non stiamo nemmeno morendo. Era come se stessimo scalando una rupe per arrivare alla cima, alla salvezza, e nel mentre avessimo rischiato di precipitare nel vuoto, qualcuno ha teso la mano alla Signora Italia, che ora è di nuovo appesa alla rupe, e stavolta in modo costante tenta la risalita.
La nostra salvezza è stata attribuita a più fattori e persone, un personaggio fra tutti ha però spiccato, dimostrandosi l’unico politico di spessore tra tanti politicanti, quindi il mio grazie, ma credo quello di tanti altri, va al Presidente della Repubblica. Ora però ci risiamo, è tornata l’Italia che conosciamo, quella che in realtà non è mai morta, l’Italia brutta del teatrino politico, dei ladri istituzionalizzati, dei mafiosi. L’Italia che non vede oltre il proprio naso, che in politica internazionale conta zero. Ci passa sopra di tutto, ogni tipo di ingiustizia, impassibile il popolo dello stivale subisce. Auspico che alla prossima cerimonia di santificazione in Vaticano, i protagonisti siano gli italiani tutti nel loro insieme, perché per subire tali soprusi o sono santi o sono scemi. Ultimamente sono avvenuti episodi assurdi, da far accapponare la pelle. Un senatore/tesoriere/ladro che ruba decine di milioni di euro al proprio partito, un amore vero per la politica il suo, e nessuno pare accorgersene. Meglio comunque i ladri dei mafiosi, uno tra questi Marcello Dell’Utri, ha evitato il carcere in forza di una sentenza della Cassazione. Leggiamola in modo più chiarificatore : ad un mafioso, eminente esponente nonché cofondatore di un partito politico, con provati rapporti con Cosa Nostra, sono stati risparmiati per ora 7 anni di carcere. Non parliamo degli pseudo giudici autori della sentenza, si commentano da soli. Ma poi anche l’avessero condannato?? Sette anni?? Non voglio fare il forcaiolo, ma mi sembrano assai pochi, se pensiamo che un disgraziato che approda sulle coste italiane per il reato di clandestinità rischia poco meno.
Dovremmo quindi scrivere all’infinito per ricordare le anime sporche e gli individui loschi in questa Italia, ma bisogna superare lo schifo per le ingiustizie che ogni giorno ci passano sotto gli occhi. Forse questo governo è solo la pagina bianca, la prima pulita, di un nuovo libro che gli italiani si accingono a scrivere, dobbiamo fare di tutto perché sia così. Negli ultimi due anni e mezzo sono successe tante cose, sono venuti alle luci della ribalta personaggi che avremmo volentieri fatto a meno di conoscere, allo stesso tempo altre figure che hanno contribuito a ciò che di buono c’è in questo paese ci hanno lasciato. Mi piace ricordarne alcune. Qualche tempo fa se n’è andato uno statista, Tommaso Padoa-Schioppa , a Natale c’ha lasciato il partigiano Giorgio Bocca, e da ultimo, lasciandoci la sua musica, uno degli ultimi poeti di casa nostra si è spento, Lucio Dalla. C’è un altro uomo, che mi ha sempre colpito profondamente, che due anni fa ha lasciato questa terra. Un regista italiano, un visionario, che per mezzo secolo ha raccontato l’Italia e gli italiani, le loro gioie e sofferenze, nel suo modo rude, schietto, guardando in faccia una realtà che disprezzava sempre di più. Mario Monicelli non nascondeva di disprezzare anche molti italiani, odiava il loro atteggiamento, vedeva una passività disarmante. “ Gli italiani sono fatti così, vogliono che qualcuno pensi per loro, se va bene va bene, se va male colpa sua, a volte lo impiccano anche a testa in giù, questo è l’italiano “. Non la sopportava proprio questa situazione, tant’è che non ha nemmeno aspettato la morte, ha preso lui l’iniziativa.
Luca Orfanò
Leo Fender contro Leo Fender
Ebbene si ragazzi, succederà una cosa che non molti si sarebbero aspettati: la “Fender Musical Instrument Corporation”, la più famosa casa di produzione statunitense di chitarre, si quota in borsa, puntando a raccogliere 200.000.000 dollari. La società sarà quotata al Nasdaq con il codice: FNDR.
Chissà come la prenderà Bruce Springsteen, anticapitalista per definizione, che sempre si fa fotografare assieme alla sua Fender Telecaster. Chissà se si preoccuperà dell’immagine che darà ai suoi amatissimi fan
Per molti versi la “Fender” è simbolo di libertà, musica rock, concerti, ragazzi svaccati sui prati. Sicuramente gli appassionati non associano il marchio al capitalismo, a Wall Street e al consumismo sfrenato del XX secolo, anche se in realtà per una Stratocaster si vanno a spendere minimo 650 €, quindi non è proprio roba per il popolino.
Perché allora la Fender si quota in borsa? Perché perdere l’immagine che ha sempre avuto fin da quando è stata fondata da Leo Fender nel 1946? Di certo quotarsi in borsa non è consuetudine di un’impresa “Rock”!
La risposta è: rinegoziazione del debito e fame di crescita.
Dei 200.000.000 dollari 100.000.000 andranno a coprire il debito dell’impresa. Il resto andrà in spese generali e probabili acquisizioni di altre società.
La Fender ha avuto un calo di utile di 1 700 000 dollari nel 2011, con un debito di 239.600.000 $ per aver acquisito la Kaman Music. La Fender acquisisce poi la Gretsch che è specializzata nelle semiacustiche, la Jackson che è la preferita di chi ama il metal e ora chissà, con i soldi degli investitori magari si mangia pure la Gibson!
Insomma il profitto è sempre l’unico obiettivo dell’essere umano e ancor di più lo è quello delle persone giuridiche. Non importa la filosofia di una persona, in questo caso di una moltitudine di persone, ma ciò che conta è fare soldi. Punto. Forse è vero quel che dissero i Maya, quest’anno ci sarà la fine del mondo, intesa come la conclusione dell’età dell’oro. Perché se non si hanno più ideali, per quanto utopici, e si seguono solo i pezzi di carta verde che ogni giorno valgono sempre meno, tutto è destinato a sgretolarsi.
“We make the music free, hard, strong peaks that soul to open it.” J.H.
Luca Esatto
Da grande voglio fare il banker
Le banche d’investimento sono la “Champions League” dei neolaureati in finanza. Rappresentano il culmine della carriera, una vetta scintillante e prestigiosa dalla quale si può avere una visione completamente diversa del mondo. Cos’è che rende le banche d’investimento così maledettamente attraenti? Esatto, proprio lui. Il vil denaro.
Un neolaureato in grado di farsi assumere da una delle big inizia la sua carriera come “analyst”, percependo uno stipendio fisso di circa 80.000 $, con un bonus del 25%, arrivando quindi a 100.000 $ totali. Tuttavia ecco svelatovi un segreto che potrebbe sconvolgere i più: nelle banche di investimento non esistono vacanze. Esatto, si lavora 52 settimane all’anno. Mediamente ogni settimana un analyst del primo anno spende all’incirca 100 ore del suo tempo in ufficio. Calcolando rapidamente la paga oraria in questo modo: 100.000/(52*100) si ottiene 19,23 $ all’ora. Deludente vero? Come insegna il mitico Gordon Gekko, il denaro non dorme mai. A quanto pare neanche chi lo insegue con forza. Inoltre l’ambiente di lavoro in una investment bank non è esattamente l’ufficio postale sotto casa dove le impegate passano le giornate a spettegolare sull’ultimo eliminato dal GF. La competizione è altissima, la precarietà del lavoro è elevata, basta un piccolo errore e sei fuori. Molto spesso l’errore può essere indotto da colleghi invidiosi o bramosi della tua poltrona. Le mansioni di cui si occupa un analista al primo anno non sono certamente edificanti come si può immaginare. Per lo più si tratta di redigere noiose presentazioni su casi aziendali o stilare report passando le notti ad analizzare migliaia di dati. Per farsi notare non basta sputare sangue davanti al pc. Ciò che spesso influenza la tua possibilità di essere promosso è il modo in cui gestisci i rapporti con colleghi e superiori. Fare il topo da biblioteca non è una buona idea, lo è sicuramente di più partecipare ad ogni serata organizzata dal personale dell’ufficio, presenziare a feste o aperitivi, pranzare e cenare con i dirigenti cercando di essere spiritosi e brillanti senza ostentarlo. In una banca d’investimento nessuno è indispensabile. Il tuo posto può essere facilmente rimpiazzato dopo un paio di telefonate. Dettagli come la quantità di cucchiaini di zucchero nel caffè del capo possono rivelarsi decisivi.
La verità è questa, le banche d’investimento sono la prova del fatto che Darwin aveva ragione: solo i più forti sopravvivono. Forte significa furbo, scaltro, camaleontico. Non c’entra il voto di laurea, il curriculum di 10 pagine o la professionalità. Non è un posto dove lavorare, nel senso più ampio del termine. In banche come Jp Morgan, Goldman Sachs e compagnia bella ci vai per fare soldi. L’80% del personale delle investment banks lavora al massimo 10-15 anni per poi raccogliere quanto seminato e vivere di rendita depositando i risparmi in conti offshore.
Il troppo storpia. Troppo denaro offusca la vista. Distorce il tuo modo di ragionare. Se il tuo lavoro diventa la tua vita non c’è più spazio per altro. Niente cene in famiglia, pomeriggi al parco, serate con gli amici. Non interessa a nessuno se è il tuo anniversario, il compleanno di tuo figlio o semplicemente se hai la febbre a 40 e non ti reggi in piedi. Il lavoro viene prima di tutto. I mercati finanziari non si fermano davanti a nulla e tu devi essere sempre pronto. La ricchezza ha un prezzo altissimo, si prende tutto il tuo tempo. Non a caso finanza e depressione non sono due termini isolati tra loro. Storie di pezzi grossi che trascorrono serate in compagnia di prostitute e cocaina non sono da associare esclusivamente al copione di qualche film mal riuscito. Gli eccessi che spingono queste persone a sperperare in malo modo le proprie buste paga sono un modo per compensare tutta la pressione e la frustrazione represse durante le interminabili ore di lavoro. Inoltre è necessario non dimenticare che l’immagine conta. I banker sono cicale, non formiche. I banker ostentano la loro posizione attraverso le macchine di lusso, gli abiti su misura firmati, le ville ai Caraibi. Vogliono apparire invincibili perché è ciò che serve per guadagnare autorità e rispetto. Concludendo c’è da chiedersi se veramente valga la pena di intraprendere un simile percorso. La risposta è ovviamente soggettiva, la certezza assoluta è invece soltanto una: il tempo trascorso non torna indietro. Nel bene e nel male.
Se qualcuno fosse scettico riguardo alcuni dettagli del post vi invito a visitare il sito www.mergersandinquisitions.com
Cristiano Ventricelli
Senza FIATo
A Torino, in piazza Cattaneo, nello storico quartiere operaio di Mirafiori, c’è un salone, concessionario di auto Fiat, il più importante della città, meglio noto come Mirafiori Motor Village. In un largo viale, che parte da un lato della piazza e arriva fino ad una vetrata del salone, sono schierati i modelli del Gruppo Fiat. Lancia Musa, Lancia Ypsilon, Alfa Mito, Nuova Panda, Fiat Freemont , 500 L , Lancia Thema eccetera. Si tratta di auto di vario tipo, prodotte ovunque tra Serbia, Polonia, Brasile, Pomigliano, Melfi e Detroit. Nello stabilimento torinese, dopo la Multipla, hanno smesso di produrre automobili, oramai ci lavorano solo quelli addetti alla manutenzione degli impianti, gli operai per la maggior parte sono a casa in cassa integrazione, se non si sono già suicidati. Non vorrei parlare di numeri, le statistiche esistono apposta, e chi sa leggere non avrà difficoltà a notare che le vendite di automobili Fiat in Italia e in Europa sono andate scendendo, gli unici dati positivi arrivano da Oltreoceano, dove giusto a febbraio le vendite del gruppo sono aumentate ben del 40% mentre in Italia sono diminuite del 20,13 %. Insomma nel nostro Paese le cose per la Fiat, e per i suoi (ex) operai non vanno alla grande, per usare un eufemismo. Non si può dire lo stesso per il C.E.O. del gruppo torinese, che oramai è tutto proiettato negli States, qui avrà lasciato solo un formale ufficio, e la residenza…anzi no, quella è in Svizzera. Sergio Marchionne è un manager affermato, che riceve un salario da manager, non ho nulla da dire su questo, e d’altronde non vedo come possa essere diversamente. L’ad del gruppo torinese, scelto da Umberto Agnelli oramai in fin di vita, ma prima ancora, designato dall’Avvocato, ha risollevato la Fiat dal baratro nel 2004. E’ stato l’artefice di lodevoli operazioni aziendali, che hanno riempito d’orgoglio Torino e tutta l’Italia, l’industria automobilistica italiana che salva Chrysler, il gigante di Detroit.
Un manager umano, così era visto in Italia fino a non molto tempo fa, addirittura si espose Fausto Bertinotti definendolo il “ borghese buono”. Marchionne quindi di meriti ne ha diversi, questo è innegabile. Come però lo è il fatto che la Fiat vende poco, almeno da questa parte dell’Atlantico, che poi è quella che ci riguarda. Pochi mesi fa è stato chiuso l’impianto di Termini Imerese, mandando a casa gli operai che vi lavoravano. A Mirafiori non si producono auto da più di un anno. Gli scontri tra i sindacati ( Fiom in testa ) e il Gruppo Fiat sono stati ampiamente trattati dalla pubblica informazione, meno la condizione delle vittime di tali scontri, cioè gli operai cassintegrati e non. Tutti sappiamo degli avvenimenti susseguitisi in questi anni, gli scioperi, l’annuncio di Marchionne di lasciare l’Italia, e l’intervento di quel disastrato individuo dell’ex premier italiano, che lo incentivò non molto tempo fa. Nota è la storia dei tre operai di Melfi, licenziati in tronco dalla Fiat, reintegrati dal giudice, riassunti dalla Fiat, ma tenuti a casa: cioè vengono pagati ma gli è formalmente comunicato che possono starsene sul divano perché il loro lavoro allo stabilimento non serve. Dicesi Mobbing. Arcinoto è il referendum tenutosi a Mirafiori poco più di un anno fa, nel gennaio 2011. Anzi chiamarlo referendum potrebbe dare all’evento una parvenza democratica, di cui era privo, chiamiamolo quindi votazione forzata. In questa votazione l’amministratore delegato Marchionne chiedeva esplicitamente di esprimere un voto SI o NO, riguardo l’accettazione del modello di fabbrica, secondo lui efficientissimo, già accettato a Pomigliano. La curiosa clausola era che se avesse vinto il NO, lui avrebbe chiuso la fabbrica. Se non mi compri le figurine, io non vado a scuola, io dicevo così ai miei quando avevo 8 anni, vi sfido a trovare le differenze di comportamento. Rivangare il passato oramai non serve più, o almeno non serve a noi, la votazione ebbe luogo, e vinse, anche se di poco, il SI. Conclusione: Mirafiori è aperta: ma non ci lavora nessuno, non si fanno macchine. Tutto questo casino per niente. Dato che Mirafiori sembra, ahinoi, quasi passato, parliamo del futuro. Lo stabilimento di Pomigliano funziona quasi a pieno regime, è stata appena prodotta la Nuova Panda. Questo lo sanno tutti, pochi però sono a conoscenza degli operai che l’hanno prodotta. Vi chiederete: beh, che avrà da dire sugli operai? Su quelli che lavorano nulla, sugli altri qualcosa. Per la costruzione di questa vettura sono stati richiamati numerosi operai in cassa integrazione. Nessuno di questi è un tesserato Fiom.
Tra le svariate centinaia di tesserati Fiom che lavoravano a Pomigliano, nessuno vi è più impiegato. Una notizia gravissima, una mancanza di democrazia interna alla fabbrica di cui nessuno parla, riguardo a cui nessuno si indigna, la politica in primis. Ma non parliamo di diritti di rappresentanza, di sindacati, che può comprensibilmente sembrare noioso. Parliamo di auto, dopotutto la Fiat di questo si occupa. Qual è il piano industriale di Marchionne? In parole povere, che auto ha in mente di progettare, in quali stabilimenti e quando? In un paese normale, un’azienda normale, con un ad normale, e con politici normali, già si saprebbe. In Italia, c’è la Fiat, con Marchionne, e con politici che sono tutto fuorchè “normali”, risultato: non si sa. Ignoto è anche il motivo per il quale Marchionne si ostina a non rivelare i progetti industriali del Gruppo, azzardiamo qualche spiegazione, in ordine crescente di probabilità:
1- Le auto che intende produrre sono talmente belle, così confortevoli, coinvolgenti, competitive, che basterà il solo effetto sorpresa a farle vendere come il pane
2- Non ha un progetto industriale
3- Ce l’ha eccome, riguarda la Serbia, la Polonia, il Brasile, gli Stati Uniti e chissà, forse pure l’Antartide, non l’Italia però
Tutte le auto elencate all’inizio sono prodotte fuori dall’Italia, a parte la Panda. Nel nostro paese si fa la Panda, e se ne fanno tante. Qual è il piano industriale della Fiat? La Panda. Beh è davvero difficile a questo punto non capire il motivo per cui la Fiat in Europa va male. La ragione per la quale il Gruppo Fiat, che pure ha al suo interno innumerevoli marchi, non raggiunge i livelli di produttività e di vendite di Toyota e Volkswagen. Non alla Volkswagen, ma sempre in Germania, alla Opel, Marchionne ci andò. Tentava di comprarla, come aveva fatto con Chrysler, e presentò le sue idee e i suoi progetti. Tornò in Italia con la coda fra le gambe, la Merkel e i sindacati pretendevano di vedere un piano industriale, che lui non aveva. A Detroit il suo progetto venne accettato perché l’alternativa era la bancarotta, il fallimento. Pochi mesi fa il Gruppo Fiat ha restituito agli Stati Uniti, al tesoro americano, i prestiti che aveva ricevuto per il salvataggio di Chrysler. Dio solo sa quanti aiuti economici la Fiat ha ricevuto dall’Italia, e neanche Dio sa quanti ne ha restituiti. Hanno fatto il Fiat Freemont e la Lancia Thema. Un Cherokee e una Cadillac venuti male. Ma non venuti male perché sono auto scadenti, intendiamoci, sono belli, davvero. Venuti male perché non sono macchine competitive, perché sono il tipo di auto che compreranno sempre meno persone, sempre più grandi, sempre più costose e sempre più inquinanti. E’ questo il futuro per l’auto che vede il manager italo-canadese? E soprattutto che si produrrà in questo benedetto paese oltre a quella super innovativa auto, e dal quanto mai inusato e fantasioso nome di Nuova Panda? Davvero mi piace l’idea della Fiat come fabbrica globale, davvero mi interessa la sua sfida alla competitività, ma altrettanto importanti sono le sue origini, dove è nata, chi ci ha lavorato e chi ci lavora, variabili che non si possono ignorare.
Luca Orfanò
Lettera aperta ai NO TAV
Una doverosa premessa: quello che dirò sulla Tav è un’opinione strettamente personale, confutabilissima da fatti, cifre, testimonianze e via dicendo, anzi se verrà confutata, vorrà dire che sarà stata quantomeno presa in considerazione.
Lo dico subito, nel linguaggio più esplicito di cui sono capace, per evitare fraintendimenti: per quel che può valere il mio parere, sono favorevole alla Tav. Da decenni si parla ( purtroppo niente di più) del treno ad alta velocità che dovrebbe attraversare la Val di Susa. Da qualche anno a questa parte ho sentito pareri favorevoli, favorevolissimi, indecisi, contrari, intransigenti eccetera eccetera. Ognuno ha le sue ragioni, ogni valsusino ha le sue motivazioni, ciascuno è libero di manifestare la propria idea, e la propria eventuale contrarietà all’opera. Sono stati fatti studi sulla fattibilità di questa ferrovia, da enti governativi e da autonome associazioni. Varissimi sono stati i risultati, da chi sostiene l’opera che ritiene innovativa e utile, a chi, come una minoranza della Valle, la considera inutile e dannosa. L’inchiesta dei carabinieri Minotauro riporta la presenza importante della ‘ndrangheta in Piemonte e quindi rivela un implicito interesse dell’organizzazione criminale negli appalti della Tav. Non voglio entrare nel merito delle questioni, ci sono autorevoli giornalisti che se ne occupano da anni. Non so se servirà ad incrementare ed innovare il settore italiano dei trasporti, oppure se sarà utile soltanto a far andare più veloce le scatolette di tonno da Torino a Lione. Quel poco che in questi anni ho capito è che questa è una ferrovia che non si ferma in Francia e nemmeno in Italia. Si tratta di un progetto Europeo ( la maiuscola è volutamente scritta ) che si propone di collegare Lisbona a Kiev, uno dei numerosi corridoi del trasporto europeo. Ho sentito persone dire che il Portogallo si era ritirato dal progetto, e pertanto, la secondo loro logica conclusione, era che dovessimo farlo anche noi.
Non pensavo che gli Stati si imitassero riguardo alle politiche industriali. In Francia i lavori per la ferrovia sono pressoché ultimati, credo che anche al di là delle Alpi ci sia una valle, degli abitanti, favorevoli e contrari, nessuno è ancora morto a causa delle fantomatiche sostanze velenose che si sprigionerebbero dalle montagne “assassine “ attraversate dai tunnel. Il culmine della protesta si è raggiunto nell’estate del 2011, quando sulle montagne vicino alla località di Chiomonte valsusini e non, torinesi e non , giocavano a fare i partigiani. Peccato che questi ultimi primo combattevano meglio, secondo lo facevano contro una dittatura, non contro un treno. Fino alle fine dello scorso anno si sono susseguite manifestazioni, ben poco numerose, a Torino e nella Valle, contro la Tav. Negli ultimi giorni abbiamo assistito a diversi blitz per bloccare l’inizio dei lavori, e purtroppo al tragico incidente di cui è stato vittima un manifestante, che spero, come credo chiunque, si riprenda al più presto. Sento le persone che protestano parlare di libertà, democrazia. Hanno ragione, forse sono stati poco ascoltati, molto poco considerati dai governi succedutisi in questi anni. Ma quello che questo movimento non capisce è che la Tav è un’opera pubblica, decisa da un legittimo Governo, e votata da un legittimo Parlamento. Lungi da me essere fieri di questo Parlamento, ma così funziona la legge in uno Stato di diritto, e continuare a protestare contro una approvata opera pubblica è davvero singolare. Il Paese è capace di fermarsi per un treno, questa è la verità. Il Governo Monti ha dato la sua risposta, è intenzionato ad avviare l’opera. Questo esecutivo ha saputo eliminare i progetti di opere ed eventi inutili e costosi, lo ha dimostrato rifiutando la candidatura di Roma ai Giochi Olimpici e togliendo quegli ultimi finanziamenti rimasti al progetto del Ponte sullo Stretto.
Ho sentito cose assurde da parte dei manifestanti, nemmeno fossero davvero in guerra. Facciamo ridere, fanno ridere. Perché non posso fare altro che ridere quando sento che il Procuratore Caselli, che è come parlare di Falcone o Borsellino, viene accusato di essere mafioso. Non voglio credere che la maggior parte degli abitanti della Val Susa si schieri assurdamente, secondo me, contro la Tav, e sono certo che così non è. I leader del movimento No Tav blaterano slogan da cabaret: non ci fermeranno, li bloccheremo. Che tornino sulla terra e che si informino un po’ su come va il mondo, c’è tanto di cui indignarsi, un treno è davvero l’ultima delle ingiustizie. Se l’Italia è un paese serio, la Tav si deve fare. Sempre che non si voglia andare alla Commissione UE a dire che abbiamo cambiato idea, e che i fondi che hanno tenuto in serbo per l’opera da mesi, beh…non ci servono più. A Bruxelles ne saranno contentissimi.
Luca Orfanò
Sara Tommasi "esperta" in finanza
Non preoccupatevi, non parleremo di gossip. Il tema è, ahimè, molto più triste e delicato. Sara Tommasi è un’esperta in finanza. Sara Tommasi è laureata alla Bocconi. Sara Tommasi tiene congressi e seminari insieme ad importanti esponenti della politica, dove espone le sue tesi e la sua ricetta per “sovvertire” il sistema bancario internazionale. Sara Tommasi si spoglia in pubblico davanti a Montecitorio. Quale di queste proposizioni suscita maggiore indignazione/schifo/rabbia/voltastomaco? Quale di queste immagini riflette con maggiore fedeltà lo stato attuale della cultura nel nostro Paese?
Ciò di cui la signorina Tommasi ama discettare è il “signoraggio bancario”. Mi rifiuto categoricamente di scrivere nel mio blog le ciclopiche stronzate che ho sentito nei suoi interventi, se qualcuno avesse il gusto dell’orrido può comunque reperirle facilmente sul web. Non mi stupisco del fatto che i vari Scilipoti, Marra e compagnia bella abbiano utilizzato l’immagine avvenente e provocatoria della Tommasi per ottenere maggiore visibilità. Non mi stupisco che la nostra “esperta” non abbia tardato a mostrarsi nuda nelle principali città italiane, rivelando così la sua vera natura. Ciò che invece mi fa rabbrividire (probabilmente perché mi tocca più da vicino) è il fatto che questa escort di alto rango (era presente ai festini di Arcore, questo non è gossip, è cronaca) possa vantare un diploma di laurea in finanza con voto 105 alla Bocconi.
A ben vedere, però, niente di nuovo sotto il sole. A quanto pare la Tommasi non è l’unica bellezza del jet set ad aver concluso con successo gli studi nel prestigioso ateneo milanese. L’attrice Katy Louise Saunders, che molti di voi avranno sicuramente potuto ammirare al cinema o in qualche telefilm sulla Rai, è laureata in Economia Aziendale. Tra i 19 ed i 24 anni (solitamente il quinquennio in cui noi comuni mortali ci laureiamo), la Saunders ha girato ben 8 film e 2 serie tv, trovando il tempo di studiare tra un ciak e l’altro….Che dire? Una studentessa modello! E’ “bocconiana” anche la modella Nina Senicar, testimonial di Roberta e Miss Sixty, concorrente dell’Isola dei Famosi e conduttrice Mediaset, così come Pierre Casiraghi o Aimone di Savoia, solo per citarne alcuni (l’elenco sarebbe lunghissimo). Cosa sta succedendo? E’ verosimile che i corridoi e le aule della Bocconi siano diventati backstage di una sfilata di moda? Perché la stragrande maggioranza degli iscritti negli ultimi anni appartiene alla buona borghesia, rampollame vario o semplicemente a famiglie di affermati manager che vogliono i propri figli all’altezza del loro nome?
La Bocconi è davvero diventata una griffe come un’altra da vestire per essere trendy e vincenti? Se da un lato è sbagliato pensare che brillanti carriere professionali siano necessariamente sostenute da risultati accademici eccellenti (come dimostra l’ex AD di Unicredit, Alessandro Profumo, laureatosi alla Bocconi con 94 a 30 anni), è altresì impossibile notare come il prestigio e la serietà della business school di via Sarfatti, siano stati utilizzati come un’etichetta scintillante per abbagliare, e quindi celare ciò che realmente sono molti dei laureati della Bocconi. Con questo non voglio assolutamente generalizzare, lungi da me esprimere giudizi perentori, anche perché conosco personalmente ragazzi che frequentano la Bocconi senza essere figli di star, nobili o quant’altro. Tuttavia il fatto che si possano verificare dei trattamenti di favore verso alcuni studenti con un particolare background, può essere quantomeno un’ipotesi. Una cosa è certa: laureati come Sara Tommasi fanno drasticamente calare la credibilità dell’università di Milano in Italia e all’estero. Speriamo che Monti, terminato il mandato di governo, possa tornare a mettere un po’ di ordine, anche se è più facile pensare che egli sia connivente.
Cristiano Ventricelli
Giochi di potere in Siria
Negli ultimi giorni abbiamo assistito alla già nota impotenza, in determinati casi, del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Al Palazzo di Vetro non è stato raggiunto un accordo sulle misure da prendere nei confronti del Presidente siriano Bashar-Al-Assad, che da marzo 2011 ad oggi ha autorizzato stragi e repressioni nel sangue dei manifestanti. Il segretario di Stato americano Clinton ha definito l’opposizione di Russia e Cina, tramite il diritto di veto, una farsa. Susan Rice, rappresentante degli Stati Uniti all’ONU ha abbandonato il “diplomatichese” dichiarando che la decisione russa e cinese era “ disgusting “ . Discutere in merito alle decisioni del Consiglio di Sicurezza serve a poco, è opinione comune nell’ambiente diplomatico che la riforma dell’organo sia necessaria, perché se in questo caso come in altri, i portatori di veto sono Russia e Cina, diverse volte lo sono stati gli Stati Uniti, in merito ad eventi non meno gravi. Ciò che sta succedendo in Siria, come in generale gli eventi della Primavera Araba, ci permettono sia di osservare il ruolo dei paesi occidentali e non, sia di comprendere come cambiano gli equilibri politici in Medio Oriente, regione che, a quanto pare, conta ancora molto. Movimenti rivoluzionari sono apparsi un po’ ovunque nel Maghreb e nel Makresh , dall’Egitto allo Yemen, dalla Tunisia alla Siria. Ciascuno di questi paesi ha caratteristiche differenti, in merito alla popolazione, alla cultura, all’assetto governativo. Tali Stati non hanno visto interventi militari di forze occidentali, né apertamente, né in modo clandestino. Una notevole eccezione è stata rappresentata dalla Libia, le cui riserve di greggio forniscono una esauriente spiegazione per chi ancora si interroga sulle motivazioni dell’intervento. Il Vicino Oriente rappresenta quindi nell’assetto geopolitico, in questo momento, una variabile indipendente, che può condizionare le scelte degli Stati, e i cui movimenti rivoluzionari potrebbero avere imprevedibili risvolti. In quest’area instabile del mondo si muovono gli interessi dei tre grandi attori della politica mondiale, Stati Uniti, Russia e Cina. L’Europa non ancora politicamente unita, ha un’autorevolezza variabile, malata del nazionalismo francese e dei sogni imperialistici della Gran Bretagna. Se quindi la realtà fosse una partita a Risiko, si potrebbe tranquillamente dire che , per il momento, i giocatori sono tre, e gli obiettivi di ciascuno di essi sono solo parzialmente noti agli altri. Gli Stati Uniti, come l’ex Unione Sovietica, hanno rapporti di lungo corso con gli stati mediorientali, e i loro interessi sono inscindibili da quelli degli stati arabi. La Cina meriterebbe una discussione a parte, visto che tra le tre è la potenza nascente, che ancora si sta voltando verso il Medio Oriente, che esita a prendere una posizione in attesa di valutare la decisione più opportuna per perseguire i propri interessi.
Cerco di concentrarmi sulla Siria perché è lì che in questa stagione turbolenta si decideranno i nuovi equilibri mondiali. Stretta tra Turchia, Giordania, Iraq e il piccolo Libano, bagnata a ovest dal Mar Mediterraneo la Siria conterebbe anche se fosse abitata solo dal bestiame e dagli onnipresenti gesuiti. E’ un crocevia importante, infilata tra Israele e l’Iran, fedele alleata del secondo e gelida vicina del primo, il destino della Repubblica araba di Siria importa a tutti, Russia e Stati Uniti inclusi. Il potere degli Al-Assad ha resistito per 40 anni, fino a quando un sommesso movimento di protesta si è diradato come un virus fra la popolazione, così che a marzo 2011 da Aleppo a Damasco, e in tutto il paese, la ribellione è iniziata, e tutt’ora continua sotto i cruenti e mirati colpi del regime. La Siria non ha fonti energetiche di tale rilevanza da suscitare interessi imperialistici, di cui è stato vittima il vicino Iraq. La forza del paese è davvero la sua posizione, soprattutto per la Russia. Da decenni la potenza siberiana tenta di instaurare in Medio Oriente alleanze tanto forti quanto quelle americane, ma con scarsi risultati. L’unico stato con cui intrattiene una stretta collaborazione è la Siria. E’ sulle coste siriane che sono presenti le uniche forze navali russe nel Mediterraneo, e il cane difficilmente mollerà l’osso. La situazione è delicata perché una Siria instabile significa un alleato in meno per l’Iran, che già ne ha pochi. La caduta di Assad comporterebbe un indebolimento di Hezbollah in Libano e di Hamas in Palestina, con le ovvie conseguenze per la comunità israeliana. Insomma se non Assad qualcun altro dovrà governare la Siria, ma con la stessa fermezza. Dovrà inoltre piacere ai russi, non dispiacere agli Stati Uniti e a Israele e nemmeno all’Iran. Equilibri di potere quindi, e giochi diplomatici, si susseguono tra Mosca e Washington, tra le Nazioni Unite e la Lega Araba, in attesa che qualcuno si interessi dei civili sotto le bombe, perché il sangue dei manifestanti fa vendere quotidiani, ma è raro che porti a qualche cambiamento. Continueremo a guardare con apprensione la BBC, Al Jazeera e altre emittenti quindi, in attesa che qualcun altro sia folgorato sulla via di Damasco.