“Speculazione” è uno degli hashtag più popolari dal 2008 in avanti. Molto spesso questo termine è stato impropriamente usato dai media per creare il titolone da prima pagina. Ma cosa vuol dire esattamente “speculazione”?
Il termine speculazione nasce dalla voce latinaspecula (vedetta), da specere (osservare, scrutare), ovvero colui che compiva l'attività di guardia dei legionari. Da qui deriva il senso etimologico di "guardare lontano" e così in senso traslato "guardare nel futuro" o "prevedere il futuro". Fin qui niente di strano, no?
L’accezione moderna del termine è invece ben più negativa. La speculazione è un atto posto in essere da un soggetto che cerca di trarre beneficio personale senza creare beneficio o addirittura creando danni per i terzi. Per fornire qualche esempio, la speculazione giornalistica è quella messa in atto dai media che ci propinano tg ansiogeni nei quali le stragi e gli omicidi vengono amplificati, senza contare le numerose trasmissioni televisive che hanno il solo scopo di SPECULARE sulla vita di personaggi più o meno famosi. Ciò di cui voglio parlare oggi è la speculazione finanziaria.
In cosa consiste? Semplificando al massimo, chi specula in Borsa compra(vende) un determinato titolo nella speranza che il suo prezzo salga(scenda), così da poterlo rivendere ad un prezzo più alto(basso) e trarne profitto. Così facendo il prezzo dei titoli viene manipolato, oscillando ad altalena e creando incertezza e rischio, condizioni assolutamente svantaggiose per l’impresa che ha emesso quei titoli. Perché dunque è permesso mettere in atto un simile comportamento?
1) Siamo in un libero mercato, che diamine! Nessuno può impedirmi di comprare o vendere un certo titolo, né tantomeno indicarmi quando devo farlo
2) La speculazione porta LIQUIDITA’. La liquidità consiste in un mare di soldi che circolano, invece di restar fermi nelle tasche o nelle banche. I soldi vengono utilizzati per intraprendere investimenti. No speculazione, no liquidità, no investimenti = STAGNAZIONE!
Ed ora veniamo al punto centrale. La crisi dei debiti pubblici che stiamo affrontando tutt’ora è causa della speculazione delle varie banche d’affari/hedge fund/fondi di investimento statunitensi che si divertono a prenderci per il culo?
Le CAUSE che hanno creato un problema di debito pubblico sono frutto decisioni politiche ed economiche ERRATE. Parlando dell’Italia, l’eccessiva e mal gestita spesa pubblica, la pressione fiscale alle stelle, il mercato del lavoro stagnante e retrogrado e l’incolmato divario tra Nord e Sud sono solo alcuni dei motivi che hanno fatto sì che negli ultimi 30 anni l’Italia spendesse più di quanto era in grado di produrre. I malvagi della finanza entrano in gioco all’inizio della cosiddetta crisi dello “spread”. Questo famigerato parametro che si alza vertiginosamente, si riabbassa, risale come un razzo per poi crollare da un giorno all’altro è il frutto della speculazione. I grossi intermediari finanziari mondiali hanno guadagnato milioni e milioni di dollari comprando e vendendo i nostri titoli di stato da un giorno all’altro, cavalcando così le onde dello spread come i migliori surfisti californiani.
Perché ora lo spread è sceso e sembra che tutto sia finito? Perché la BCE ha iniettato ben 130 miliardi di dollari per comprare titoli di stato europei. Il messaggio è questo: la BCE ha stabilizzato i prezzi per far capire che è lei che comanda (e ce credo, può stampare denaro!), una sorta di avvertimento ai bulli della speculazione che si divertivano a maltrattarci.
Concludendo possiamo affermare che la speculazione è sicuramente dannosa se eseguita su vasta scala come è stato fino a qualche mese fa, tuttavia non possiamo scaricare ad altri le nostre colpe. Paesi come la Grecia e l’Italia sono finiti nel mirino per la loro fragilità politica ed economica che NON C’ENTRA nulla con la finanza. Gli speculatori hanno sentito l’odore del sangue e ne hanno approfittato ma non sono stati la causa scatenante. E’ bene quindi distinguere le due cose in modo da vederci chiaro e non farsi abbindolare dalle solite stronzate propinateci sempre dai soliti tg (speculatori peggio delle banche) e dai politici paraculo.
Cristiano Ventricelli
La tassa degli idioti
Di cosa stiamo parlando?
Di gioco d’azzardo.
Non relativo semplicemente al Casinò in senso stretto, quindi roulette, black-jack, poker, eccetera, ma a tutto ciò che riguarda la patologia del giocatore d’azzardo: la Ludopatia.
È un problema che ha il 42% degli uomini italiani; la nostra Nazione è il primo paese in Europa per denaro giocato in rapporto alla popolazione e il terzo al mondo. Il fenomeno è in crescita, i giovani sono i più a rischio, in sostanza 17 milioni di italiani sono coinvolti nel gioco d’azzardo. Secondo la Federserd – federazione dei servizi pubblici delle dipendenze- le ragioni dell’incremento costante di questa patologia sono dovute all’aumento dell’offerta. Tale crescita è alimentata soprattutto da Slot e gratta e vinci, per non parlare del gioco online che si sta espandendo come il PIL cinese. Secondo la Federserd le persone che giocano di più sono quelle che appartengono alle categorie meno agiate. Non lo trovate strano? Già hai pochi soldi, per di più quelli che hai li butti nelle macchinette, qualcosa non va!
In realtà è normale, più c’è crisi e più giocatori ci sono. Fateci caso, prima del 2008 c’erano si i gratta e vinci, ma mai sono stati così diffusi da riempire totalmente la vetrina di un Tabacchino. Gratta e vinci da 1, 2, 3, 5, 10, 20 euro, super enalotto, enalotto, win for life e Slot dentro tutti i bar e tabacchini. Come dice la Federserd l’offerta è tanta, basta guardare la televisione, uno spot su quattro è della AAMS.
Forse sono “loro” a volere che il popolo giochi, vogliono che buttiamo tutti i nostri soldi nel ‘’gioco d’azzardo che non sembra esserlo’’; si perché mica se vai a spendere 500 euro al bar giocando alle slot sei andato al Casinò! No figurati! Non è che se compri plichi di gratta e vinci tanto da spendere 400 euro sei vittima del gioco patologico! No figurati, e poi lo dice pure la pubblicità di stare attento a non esagerare!
Siamo vittime. Avete mai visto “Arancia meccanica”? No? Guardatelo immediatamente… … … Fatto? Bene, posso continuare… Nel film avrete notato la scena in cui il protagonista viene costretto a guardare determinati filmati ascoltando un certo pezzo musicale, diventando così eccessivamente sensibile a una certa melodia che non gli permette di essere violento. Al di là di quello che cerca di dirci S. Kubrick nel film, ci mettono davanti agli occhi cartelloni pubblicitari, spot televisivi, banner in internet, applicazioni per smartphone e tablet, insomma ci spingono quasi con la forza a buttare via il nostro denaro.
Ma perché?
Perché altrimenti dovrebbero aumentare (ulteriormente) le tasse. Si perché grazie a queste persone che sperperano il proprio denaro noi stiamo un po’ più a galla. Nel corso del 2011 le entrate totali sul gioco d’azzardo hanno consentito allo Stato italiano di incassare 13,7 miliardi di euro con una crescita di oltre 1 miliardo di euro rispetto al 2010 (+8.4%). Tredici miliardi e settecento milioni di euro ragazzi! Se smettete di giocare come facciamo a pagare i conti pubblici!? Speriamo che lo Stato continui con questa politica… ci avesse pensato la Grecia….
( I toni sono ironici, cercate di evitare di giocare d’azzardo perché crea solo un danno profondo a tutti i livelli.)
Per le fonti vedere la pubblicazione dell’Ifc-Cnr su Springer Science
Luca Esatto
Maxi asta BCE: i possibili effetti
Il 29 febbraio scorso la Bce ha messo in atto un’operazione di finanziamento denominata LTRO (Long Term Refinancing Operation), concedendo così liquidità addizionale a circa 800 banche. La durata di questo finanziamento è di 3 anni, una assoluta novità per gli standard BCE. Il tasso di interesse è dell’1%, decisamente conveniente confrontato con quelli di mercato. E’ la seconda volta che la BCE ricorre a questa iniezione di denaro nel sistema finanziaria, la precedente è stata il 21 dicembre. Leggendo tra le righe non si può ignorare come Draghi si sia distaccato dalla linea dettata da Trichet, il quale si è sempre opposto con forza ai quantitative easing della FED, giudicandoli non solo inefficaci ma anche controproducenti. Vediamo nel dettaglio i pro e i contro della maxi-asta BCE.
Aspetti positivi:
1) Le banche non sono più in pericolo per quanto riguarda la liquidità: nei mesi scorsi alcuni istituti di credito hanno rischiato il fallimento nelle sessioni notturne di mercato interbancario, a causa della difficoltà a finanziare i deficit temporanei di liquidità a tassi convenienti. La costante sfiducia reciproca spinge le banche a rivolgersi ai depositi presso la BCE, la quale tuttavia impone dei tassi decisamente maggiori dei normali tassi interbancari. Ora che le banche hanno ricevuto un po’ di “ossigeno” possiamo dire che il pericolo di default è scongiurato, il livello di liquidità dovrebbe essere ora sufficiente e il mercato interbancario dovrebbe tornare ai suoi usuali volumi di scambio.
2)Lo spread dei paesi meno virtuosi dovrebbe calare sensibilmente: le banche stanno impiegando la liquidità appena ottenuta per aggiungere in portafoglio titoli degli stati nei quali operano. Aumentando il volume degli acquisti sul mercato, il rendimento di questi titoli andrà calando, riducendo quindi lo spread tra i Bund e i Btp (Italia), Bonos (Spagna) o Oat (Francia) e conseguentemente il costo che questi stati devono sostenere per finanziare il proprio debito. Vedremo in seguito che questa operazione di acquisti dei titoli di Stato non può essere considerata del tutto positiva.
3)IN LINEA TEORICA la liquidità che le banche hanno ottenuto dovrebbe essere impiegata per aumentare il volume di finanziamento alle imprese: è questo ciò che può farci ripartire. L’economia reale. Se le imprese escono dalla presente condizione di precarietà finanziaria si innesterà un ciclo che potrà finalmente spingere gli stati europei verso una crescita ormai equiparabile ad un pozzo d’acqua nel deserto. Le banche inizieranno a fare più credito alla clientela corporate? Non lo sappiamo. In passato non è stato cosi. Se la cosa dovesse ripetersi, sicuramente il management dei maggiori istituti di credito sarebbe responsabile di aver decisamente mal gestito i finanziamenti (generosi) ottenuti dalla BCE, in quanto il credito alle imprese non è una delle opzioni, è la PRIORITA’ ASSOLUTA!
Aspetti negativi:
1)Potrebbe aumentare l’inflazione: come tutti ben sanno, l’aumento di offerta di moneta in un sistema economico genera un aumento dei prezzi dei beni prodotti nel suddetto sistema. In seguito all’asta del 21 dicembre si è verificato un sostanzioso incremento dei prezzi delle commodities (principalmente petrolio e minerali) e del comparto azionario. Questi fenomeni possono facilmente evolversi in bolle speculative. L’aumento dei prezzi nei mercati finanziari può inoltre innescare rincari dei principali beni di consumo, riducendo così il potere d’acquisto dei consumatori. Inoltre il rischio è che i mercati possano assuefarsi, dimenticando che le iniezioni di liquidità costituiscono un rimedio a situazioni di emergenza e non la prassi.
2)Acquistare troppi titoli di stato aumenta i rischi per chi li detiene: come precedentemente esposto, le banche stanno aumentando il numero di titoli di stato europei nel proprio portafoglio. Sovraesporsi al rischio-paese potrebbe non essere una buona idea in un momento come questo dove è difficile delineare gli avvenimenti futuri. La situazione greca tiene tutti in apprensione, se il default dovesse effettivamente verificarsi si innescherebbe una sorta di effetto domino, aggravando la situazione dei paesi europei più traballanti (Italia inclusa). Se l’euro dovesse sgretolarsi in seguito al fallimento della Grecia gli spread tornerebbero a galoppare, i titoli di stato perderebbero nuovamente appeal e le banche si ritroverebbero con una grande quantità di macigni che costituiscono potenziali bombe a orologeria.
3) La BCE sta allargando il suo bilancio a dismisura: a seguito dell’operazione di finanziamento al sistema bancario, le attività della Banca Centrale Europea hanno visto il loro valore subire un notevole incremento. Tuttavia, non essendo possibile “stampare” denaro illimitatamente senza subire conseguenze nefaste, il fatto che la BCE abbia concesso ora la tranche di aiuti alle banche implica che una simile opportunità non potrà facilmente ripresentarsi in futuro (almeno finchè i debiti correnti non verranno saldati, quindi non prima di 3 anni). Di conseguenza, nel caso in cui le cose dovessero volgere al peggio, le banche si troverebbero a non poter più contare sul sostegno della BCE. Questa inquietante prospettiva aumenta il fardello già enorme di responsabilità che gli istituti di credito si sono assunti.
La mia personale opinione è che il fare sia meglio del non fare. Anche se a posteriori ci troveremo a condannare la scelta della BCE, ora come ora ritengo che sia stato corretto dotare il sistema finanziario di liquidità, così da oliare maggiormente i meccanismi di erogazione e concessione creditizia. Le banche, così come gli Stati sovrani, non devono trovarsi in pericolo poiché da esse dipende il destino dell’economia reale. Con questa operazione di finanziamento entrambi avranno di che gioire. Tuttavia bisogna tenere conto degli speculatori che potrebbero essere stati ingolositi da questa operazione, pregustando la possibilità di realizzare profitti in seguito all’aumento dei prezzi dei principali indici azionari. E’ una conseguenza fisiologica, non è possibile evitarla. Così come non è possibile imporre alle banche di impiegare maggiori risorse per finanziare le imprese, anche se ciò non potrebbe che giovare ad entrambi. Bisogna imparare le lezioni che la storia ci ha insegnato. La finanza è in grado di affondare la barca, non di tappare le falle. L'andamento dell'economia reale è la vera cartina tornasole per analizzare se la politica monetaria sta dando i suoi frutti o meno. Ciò che va evidenziato è che queste misure sono da considerarsi una tantum, lo si evince soprattutto dalle numerose controindicazioni. Quello che trasforma una medicina in una droga è la convinzione di non poterne fare a meno. I mercati devono capirlo, i governi devo imporlo tramite misure politiche.
Cristiano Ventricelli
Le spinte per i giovani imprenditori
Giovani imprenditori. Sogno? Realtà? Utopia? Sembra che il Governo abbia fatto passi importanti verso questa direzione. Sempre più ragazzi possiedono idee brillanti e potenzialmente fruttuose che però sono ostacolate da vincoli burocratici assolutamente anacronistici. Uno di questi ragazzi ci ha scritto chiedendo delucidazioni sulla possibilità di avviare una attività commerciale in relazione all’eventuale apertura di una partita IVA. Oggi cercheremo di introdurre l’argomento analizzando le due principali modalità per iniziare da zero una attività commerciale autonoma.
Partita IVA
La partita IVA è una sequenza di cifre attribuita a coloro che esercitano attività rilevanti ai fini dell’imposizione fiscale (tassazione). Le informazioni di carattere prettamente tecnico (come aprire la partita IVA, quali sono le spese di manutenzione, che documenti occorrono ecc…) variano da comune a comune, oltre che dal tipo di attività esercitato, di conseguenza invitiamo chi fosse interessato a rivolgersi all’Agenzia delle Entrate o al proprio commercialista. Ciò di cui vogliamo parlare oggi è il regime fiscale agevolato di cui può usufruire chiunque decida di intraprendere una nuova attività imprenditoriale. L’agevolazione consiste in una sostanziosa riduzione delle imposte sul reddito e sulle addizionali regionali e comunali dal 20% al 5% per 5 anni dall’inizio dell’esercizio dell’attività, ma solo a coloro che non hanno ancora compiuto il 35esimo anno di età. Questo beneficio è consentito a condizione che
a) il contribuente non abbia esercitato, nei tre anni precedenti l’inizio dell’attività, un qualsiasi tipo di attività artistica, professionale ovvero d’impresa, anche in forma associata o familiare;
b) l’attività da esercitare non costituisca, in nessun modo, mera prosecuzione di altra attività precedentemente svolta sotto forma di lavoro dipendente o autonomo, escluso il caso in cui l’attività precedentemente svolta consista nel periodo di pratica obbligatoria ai fini dell’esercizio di arti o professioni;
c) qualora venga proseguita un’attività d’impresa svolta in precedenza da altro soggetto, l’ammontare dei relativi ricavi, realizzati nel periodo d’imposta precedente quello di riconoscimento del predetto beneficio, non sia superiore a 30.000 euro
Creazione di una SRL
Le SRL (Società a Responsabilità Limitata) è un tipo di società di capitali dove i soci rispondono delle obbligazioni nella misura dei loro conferimenti (la loro responsabilità è limitata a quanto hanno conferito nella società). Con un capitale di 1 euro i giovani possono costituire una società a responsabilità limitata (la Srl). Una grossa semplificazione, che non è l’unica peraltro, se si considera che normalmente per mettere su una Srl serve investire un capitale minimo di 10 mila euro. Una possibilità in più per chi volesse “fare impresa” e creare da sé il proprio lavoro.La novità è prevista nel decreto liberalizzazioni (articolo 3: accesso dei giovani alla costituzione di società a responsabilità limitata) che, modificando il Codice civile, disciplina la società semplificata a responsabilità limitata. La nuova società è una Srl a tutti gli effetti, con l’incentivo di avere una procedura di costituzione sensibilmente semplificata. Si rivolge esclusivamente a persone fisiche che non abbiano compiuto 35 anni di età e può essere costituita da più persone, tutte in possesso del requisito dell’età, oppure anche da un solo trentacinquenne.
Non serve un notaio per la costituzione (è già un bel risparmio); basta appuntare su un foglio di carta gli elementi essenziali, sottoscrivere l’atto e depositarlo entro 15 giorni presso il registro delle imprese: ciò convalida ad ogni effetto di legge la nascita della nuova Srl semplificata. L’atto costituito deve dare indicazioni sulle generalità dei soci con le rispettive quote di partecipazione, sulla denominazione sociale, sulle sedi, su attività e oggetto sociale, sulle norme di funzionamento della società, su amministratori e revisori contabili, sul capitale sociale investito che, come detto, può essere anche di un solo euro; non solo, ma può anche essere solamente sottoscritto e non versato.La Srl semplificata resta in vita finché i soci (tutti o l’unico socio) non compiono i 35 anni di età. Quando l’unico socio oppure tutti i soci perdono il requisito di età, gli amministratori devono convocare l’assemblea per deliberare la trasformazione in Srl ordinaria. La novità è sicuramente un esempio di vita semplificata per i giovani; per altri aspetti, tuttavia, non sembra centrare il cuore del problema che il moderno Bill Gates (evocato dal premier, Mario Monti, nel presentare la novità) può trovarsi ad affrontare laddove, avendo in tasca un’idea, volesse provare a trasformarla in impresa vincente. Ossia il problema di reperire le risorse necessarie (i soldi) per lo start-up.
Punto nevralgico è: quali vantaggi trae il giovane dal costituire la Srl piuttosto che aprire la Partita Iva (bastano cinque minuti e neanche un euro di capitale)? Certamente non è il vantaggio di avere una maggiore facilità di accesso al credito, perché anzi varrà il contrario. Qualsiasi banca, infatti, sarà restia ad aprire una linea di credito a giovani che, peraltro, non risponderanno nemmeno personalmente della loro attività, ma attraverso una società con “un euro” di capitale.Il vantaggio c’è solamente quando si tratta di intraprendere un’impresa con un certo rischio. In tal caso infatti, la società (diversamente dalla singola Partita Iva) mette il giovane al riparo da un eventuale fiasco, in quanto nelle Srl, per le obbligazioni sociali, risponde solo la società con il suo patrimonio (dunque l’euro di capitale). Ma si torna al punto di partenza: è proprio in questi casi che il sistema bancario fa maggiore resistenza a concedere credito.
Cristiano Ventricelli
Le crisi sono cicliche? (prima parte)
Ci avete mai pensato? La stragrande maggioranza delle persone tende ad interpretare le crisi come un fenomeno non ordinario, causa di circostanze impreviste ed imprevedibili che colgono le istituzioni ed i mercati di sorpresa, determinando quindi la necessità modificare il proprio operato in relazione agli effetti che la crisi determina. E se invece così non fosse? Se la crisi fosse una fase necessaria del ciclo economico? Potrebbe il sistema capitalistico avere una struttura tale da rendere la crisi un bisogno fisiologico per il rinnovamento? Quali conseguenze avrebbe un’assunzione di questa portata sugli scenari macroeconomici e, soprattutto, sulla percezione dei consumatori?
Prima di rispondere a queste domande più grandi di noi, vorrei analizzare le crisi dal punto di vista strutturale. L’argomento è stato diffusamente trattato dai più brillanti economisti nel corso di tutta la storia, tuttavia non è emersa alcuna tesi prevalente. Il mio pensiero è che le crisi economiche sono causate da un insieme di variabili difficilmente determinabili con precisione, ma che possono essere catalogate in 3 macro-categorie. Ecco quindi la mia personalissima classificazione:
- Crisi del primo tipo: la causa preponderante è un evento (o insieme di eventi) di carattere non economico dal quale scaturiscono dei forti shock a livello di percezione del mondo da parte della popolazione
- Crisi del secondo tipo: la causa principale è un processo di crescita e sviluppo di enorme portata, che procede ad un ritmo non sostenibile sul lungo periodo, dando quindi origine ad un inevitabile collasso
- Crisi del terzo tipo: le cause sono una serie di disfunzioni nella struttura politica o economica, dalle quali tuttavia può non avere origine nessun tipo di tensione. Queste disfunzioni portano invece ad una situazione di crisi nel momento in cui vengono amplificate dal repentino peggioramento di altre variabili macroeconomiche esterne
Questa classificazione è ovviamente sterile se non viene accompagnata da esempi concreti che non attendo a fornire
Crisi del 2001: La crisi della new economy inizia nel 2001 con lo scoppio della “bolla di Internet”. Il Nasdaq (l'indice dei principali titoli tecnologici della borsa americana) aveva cominciato a volare dal 1999 in un crescendo strepitoso che dura fino alla primavera del 2000. Prima di scoppiare i valori di borsa erano aumentati del 271%: in pratica, le quotazioni erano salite di quasi quattro volte. I sette-otto mesi della bolla sono stati la stagione d'oro, probabilmente irripetibile, della finanza mondiale. Qualcuno si era pure illuso che la crescita non avesse più fine ma poi, come l'impennata era stata velocissima, la caduta lo è quasi altrettanto. Fra marzo e aprile del 2000 l'incanto si rompe e il Nasdaq prende a precipitare. Questa prima fase della crisi è riconducibile al secondo tipo: il settore della tecnologia e dell’informatica ha letteralmente trainato i consumi a livello mondiale, allargando gli effetti benefici anche ad altri settori della produzione industriale. Purtroppo in questo periodo di ottimismo non ci si è resi conto di come questo boom sia stato anche frutto di una sopravvalutazione generale delle reali potenzialità delle innovazioni informatiche (da qui il termine “bolla”). Le imprese hanno programmato il futuro stimando che i tassi (sproporzionati) di crescita correnti fossero ulteriormente sostenibili ed i mercati hanno duramente punito questa presunzione errata. Non va poi dimenticato che gli attentati dell’11 Settembre hanno letteralmente colpito al cuore non solo gli Stati Uniti, ma il mondo intero, gettando nel panico la classe politica e le popolazioni atterrite dalla gravità dell’evento. Gli attentati dell’11 settembre sono l’esempio lampante del tipo di evento descritto nella crisi del primo tipo: l’assoluto sconcerto conseguente il verificarsi dei tragici fatti ha gettato incertezza e confusione sul futuro, prospettive che portano inevitabilmente ad una contrazione dei consumi che può innescare la recessione.
Crisi del 2007-2009: la prima fase di questa crisi è riconducibile al secondo tipo. E’ forse possibile che uno scenario nel quale il prezzo delle case negli Stati Uniti continua a salire mentre i tassi di interesse rimangono ai minimi storici, possa durare in eterno? La creazione della bolla immobiliare ha spinto l’economia USA verso livelli mai raggiunti prima, influenzando positivamente anche la situazione macro europea. Contemporaneamente i tassi di interesse erano cosi bassi da far apparire le banche come dei grossi Babbo Natale che concedevano mutui all’insegna della solidarietà universale e dell’eguaglianza sociale. C’era così tanta equità che il credito non era precluso a nessuno, neanche ai lavoratori precari o a coloro che si erano precedentemente dimostrati dei prenditori di fondi rischiosi (fenomeno dei mutui subprime). Nel 2006 ottenere il mutuo per la casa era più facile che sorseggiare un caffè da Starbucks. Nel momento in cui il mercato si è accorto dell’anomalia, i prezzi delle case sono precipitati, ed improvvisamente il mutuo che si era rivelato un’ancora di salvezza per molte famiglie si è trasformato in un cappio intorno al collo. La seconda fase della crisi è invece riconducibile al terzo tipo. I famigerati CDO e CMO sono derivati finanziari che contengono al loro interno migliaia di mutui in attesa di essere ripagati. Il valore di questi strumenti è ovviamente proporzionale al numero di mutui che vengono onorati. Ma con il prezzo delle case che precipita ed i tassi di interesse che si alzano dopo anni, ecco che diventa davvero difficile onorare il mutuo che hai stipulato per acquistare la tua villa da 400.000 dollari che ora ne vale solo 250.000. Tutto ciò si ripercuote sul valore dei CDO che si abbassa drasticamente, riducendosi a zero in molte occasioni. Un bel problema per le banche, principali venditori di tali prodotti, vero? Sbagliato. Le banche hanno venduto prodotti il cui valore si è azzerato, ma nel contempo hanno stipulato delle polizze di assicurazione che le proteggessero da questo evento (sono i cosiddetti Credit Default Swap o CDS). Una vera botte di ferro. Ed ora il collegamento con la crisi del terzo tipo: queste pratiche scorrette hanno creato problemi prima dello scoppio della bolla immobiliare? Assolutamente no. Hanno generato profitti miliardari per le istituzioni finanziarie e conferito linfa vitale alle imprese che necessitavano di credito per le loro attività caratteristiche. Il crollo è stato quindi pura sfortuna o destino inevitabile? Ai posteri l’ardua sentenza. La mia opinione è che uno scambio tra due parti, per poter essere duraturo e continuativo deve essere equo. Le banche sono riuscite a vendere merda al prezzo da loro imposto, sapendo che nel momento in cui la merda si sarebbe rivelata tale, i CDS avrebbero coperto le potenziali perdite. Questo NON è uno scambio equo.
Crisi dei debiti sovrani: veniamo dunque ai giorni nostri. Questa crisi è da ricondurre al terzo tipo ed la relazione con la crisi del 2008 è evidente. In conseguenza del drastico crollo verificatosi negli USA, i paesi finanziariamente più esposti (i famosi PIGS) hanno visto il valore dei propri asset calare verticalmente. Il bilancio delle casse statali è peggiorato a tal punto da scoprire il velo che celava una gestione della spesa pubblica poco oculata, per usare un eufemismo. Ecco allora che Irlanda, Portogallo, Spagna e Grecia si sono trovate in condizioni di precarietà. Ciò che ha contribuito ad aggravare la situazione è stata la rivelazione shock del ministro Papandreou, il quale ha ammesso che il bilancio dello Stato era falso, il rapporto tra defici e Pil non era del 3,68% ma bensì del 15,7%. In questa fase si è compreso cosa significa avere una moneta unica. L’Euro che per anni ha svolto la funzione di collante per l’economia europea e che ha permesso una crescita diffusa nel Vecchio Continente, ora costringe i paesi più virtuosi come Germania e Francia ad accollarsi l’onere di togliere le castagne dal fuoco. Il punto è questo: la crisi del debito sovrano europeo si sarebbe verificata lo stesso in assenza della crisi finanziaria del 2008? La mia opinione è che, in un mondo di risorse limitate, le casse di uno Stato non vanno gestite come se fosse la FED. I soldi non si stampano, non si inventano. Riempire il portafoglio statale di titoli ad alto rischio è una soluzione irresponsabile, poiché lo Stato è l’emblema della sicurezza per definizione, lo Stato non può fallire. Mandare in pensione la gente a 55 anni vuol dire accollarsi una spesa non sostenibile sul lungo periodo, ignorare l’eccessivo numero di dipendenti statali (inefficienti) non può che portare a sprechi che ricadono sulle spalle dei contribuenti. Lo Stato è sempre stato considerato come un agente economico in costante disavanzo. Tuttavia questo non può autorizzare i governi ad avere carta bianca quando si tratta di mettere mano ai fondi pubblici. Fino a qualche anno fa era impensabile per uno stato perseguire il pareggio di bilancio, sarebbe stato un enorme vincolo alla crescita. Ora è diventata legge costituzionale. Mai come in queste occasioni è necessario imparare dai propri errori.
Concludendo voglio sottolineare come questo post, per quanto lungo, non abbia la pretesa di spiegare dettagliatamente le dinamiche delle crisi sopraelencate. Se qualcuno fosse interessato a comprendere meglio alcuni termini o concetti espressi è caldamente invitato a contattarci. Sarà per noi un piacere rispondere alle vostre domande.
Cristiano Ventricelli
Un mondo senza Wall Street?
E’ questo il titolo del libro di François Morin, professore emerito di scienze economiche all’Università Touluse-I ed ex membro del Consiglio Generale della Banca di Francia. Morin analizza la crisi ed indica le vie d’uscita per ripensare al ruolo della finanza. Premetto di non aver letto il libro, oggi commenterò la sintesi che già offre parecchi spunti e, a libro letto, probabilmente aggiorneremo questo post nel caso ci fosse qualcosa da modificare. Ecco i punti esposti da Morin, che sostiene che la finanza sia diventata totalmente autoreferenziale e, di conseguenza, non più strumentale alle necessità dell’economia reale, ma anzi dannosa in quanto creatrice di bolle speculative che influenzano anche l’industria
Le liberalizzazioni dei tassi di cambio e d’interesse, avvenute rispettivamente negli anni settanta e ottanta, sono state la premessa della nascita di un mercato connesso alla copertura dei rischi, consistente nel trading di quei prodotti derivati rispetto ai quali ancor oggi il G20 non ha preso delle decisive risoluzioni.
Ormai i derivati sono considerati un’appendice di Satana, tanto è il timore che incutono nell’opinione pubblica anche al solo nominarli. Come spesso succede, ciò che è sbagliato (e quindi dannoso) non è lo strumento stesso, ma bensì l’uso che ne viene fatto. I derivati sono strumenti finanziari che permettono di proteggersi da fluttuazioni dei prezzi di un particolare asset (possono essere azioni, obbligazioni, valute, commodities ecc…). Sono strumenti utilizzati dalle maggiori industrie, ad esempio la Lavazza utilizza i derivati per coprirsi dal rischio di variazioni negative del prezzo del caffè, materia prima a dir poco essenziale per l’impresa in questione. Senza derivati, probabilmente i prezzi al consumo di migliaia di prodotti avrebbero variazioni anche significative da un giorno all’altro. C’è qualcosa di malsano in tutto ciò? Assolutamente no. Ciò che crea danno sono le enormi sale di high frequency trading (trading ad alta frequenza) dove le grandi banche di investimento, gli hedge fund o le società di trading specializzate speculano su migliaia di asset utilizzando questi strumenti. Il mercato dei derivati è controllato al 70% da questi intermediari finanziari che scambiano strumenti con orizzonte temporale di alcuni millisecondi e ripetono queste operazioni milioni di volte al giorno, assicurandosi così profitti da capogiro. I mercati dei derivati sono molto opachi e condizionati dalle cosiddette “mani forti” che, di fatto, riescono a manipolare i prezzi a loro piacimento. Le variazioni di prezzo dei derivati hanno effetto ovviamente anche sui loro “underlying assets” ovvero sui prodotti i cui prezzi sono coperti dai derivati (tra poco metteremo la voce apposita nella sezione Dizionario) e questo provoca danni all’economia reale.
Intendere la moneta come un «bene comune», giungendo per tappe a una moneta internazionale ma non necessariamente unica, basata su un paniere di monete, permetterebbe intanto di limitare i rischi di deprezzamento drastico e sgonfierebbe alla radice le manovre della speculazione finanziaria
Idea brillante ma a dir poco utopica. Quando fu introdotto l’Euro, i paesi coinvolti nell’approdo alla moneta unica si trovavano in condizioni economiche molto simili. Allo stato attuale ci sono grossi dislivelli, sarebbe come se l’Euro tedesco valesse di più di quello italiano, con tutte le fastidiose conseguenze del caso. Una moneta internazionale presupporrebbe economie uniformate, non è più così in Europa che è un continente statico e lento da anni, figuriamoci in zone dinamiche ed in continua evoluzione come l’Asia o il Sud America. Sono d’accordo sul fatto che risolverebbe molti dei problemi che creano controversie anche sul piano politico, ma concretamente è un’operazione ben oltre i limiti del possibile
Contestuale alla riforma monetaria internazionale, dovrebbe poi essere l’avvento di una fiscalità altrettanto internazionale, che preveda l’abolizione dei paradisi fiscali e del segreto bancario, nonché la tassazione delle operazioni finanziarie sul modello dell’idea di Tobin.
Il “fiscal compact” e l’approdo della Tobin Tax testimoniano che ci stiamo gradualmente muovendo in questa direzione. Appare ormai chiaro che è necessario abolire ogni possibilità di “arbitraggio” fiscale in modo da evitare fughe di capitali verso i paesi più accomodanti. In contemporanea va però stabilito un livello di pressione fiscale comune che si attesti su una sorta di “valore medio”, in quanto non ci si deve poi stupire quando si scopre che la maggior parte dei capitali che “fuggono” provengono da paesi come Italia e Francia, stranamente (ma non troppo) quelli con il livello di tassazione più alto d’Europa.
Per quanto riguarda il superamento della logica della creazione di valore per l’azionista(shareholder value), la posizione di Morin è non meno radicale, e chiama in causa la riformulazione dei rapporti di proprietà nelle società di capitali, in modo che in una «impresa partenariale alternativa» gli utili siano equamente distribuiti tra chi apporta i fondi, il top management e i salariati, senza che una parte sia costretta ad assumersi più rischi dell’altra, come accade attualmente a scapito del lavoro
Su questo punto mi trovo totalmente in disaccordo. L’impresa crea valore aggiunto nel momento in cui si assume dei rischi. E chi risponde di questi rischi? Il management e gli azionisti, cioè chi prende le decisioni rischiose e chi le finanzia. I salariati (soprattutto in Italia) non sono sottoposti al rischio d’impresa e questo rende la loro posizione decisamente stabile (a Londra se un reparto di un’azienda non produce utili può essere chiuso da un giorno all’altro, se fosse così anche in Italia avremmo forconi e Black Block ogni giorno ad infestare le strade). E’ quindi logico che chi si assume dei rischi risponda di eventuali conseguenze negative, così come venga remunerato del premio per il rischio assunto nel caso in cui esso abbia risvolti positivi. L’idea di Morin è decisamente di stampo marxista e, perciò, assolutamente anacronistica. Comprendo che ci troviamo in un momento storico in cui siamo consapevoli dei danni che gli eccessivi rischi hanno causato, ma decidere di non correrne affatto è dannoso almeno nella stessa misura. Inoltre l’equità non significa spartirsi la torta in fette uguali, significa chi ha contribuito in una certa misura al completamento della torta DEVE riceverne una fetta proporzionata.
Concludendo, in attesa di leggere l’intero libro, ci sono sicuramente indicazioni interessanti. Tuttavia cambiamenti eccessivamente radicali potrebbero rivelarsi controproducenti, in quanto è vero che la finanza sta diventando autoreferenziale, ma è comunque connessa in modo solido con l’economia reale. Senza mercati finanziari non ci sarebbe liquidità, non si potrebbe parlare di libero mercato e verrebbero precluse le maggiori opportunità di credito e di investimento che trainano l’economia mondiale. Siamo tutti d’accordo sul fatto che, allo stato attuale, siano necessari cambiamenti in grado di disincentivare le pratiche “inquinanti” messe in atto dalle “mani forti” della finanza. Occorre però una precisione chirurgica per rimuovere solo il tessuto necrotico della “gambling finance” senza toccare ciò che di sano ancora rimane.
Cristiano Ventricelli
Facebook ed il processo di quotazione in Borsa
Con questo post rispondo alla domanda di un nostro lettore che ci ha chiesto delucidazioni in merito al processo di quotazione di una società in Borsa. Premetto che, data la complessità dell’argomento, l’esposizione ha l’obiettivo di essere semplice, chiara e facilmente comprensibile, non la pretesa di assoluto rigore e correttezza formale.
Giorgio, Silvia e Marco sono i titolari di un negozio online di articoli da pesca, di nome Zeta. Dopo aver visto al cinema “Wall Street”, presi da un grande entusiasmo (ed un pizzico di megalomania) decidono di intraprendere la strada della quotazione in Borsa. Ciò di cui hanno bisogno, in primis, è una società per azioni. La società per azioni è un tipo di società di capitali che si distingue per il fatto che il suo capitale sociale, ovvero i conferimenti che i soci apportano alla società per renderla operativa, è diviso in azioni (la voce “azioni” è presente nella sezione Dizionario). Le società per azioni non quotate in Borsa hanno come requisito minimo di capitale 120.000 euro, di conseguenza nell’ipotesi che Giorgio, Silvia e Marco vogliano spartirsi la società equamente, ognuno dei 3 dovrà conferire e versare il controvalore di almeno 40.000 euro nel capitale sociale. Quanto valgono le azioni di questa società? Il loro valore nominale è facilmente determinabile dividendo il capitale sociale per il numero di azioni emesse. La Zeta.spa verrà ad esistere nel momento in cui Giorgio, Silvia e Marco andranno ad iscriverla nel registro delle imprese, iscrivendo anche il relativo statuto della società all’interno del quale sono riportate tutte le informazioni societarie nei minimi dettagli. Ecco che si è venuta a creare una società per azioni.
Tuttavia per la quotazione in Borsa ci sono dei requisiti più stringenti:
- La società deve essere in attività da almeno 3 anni
- La capitalizzazione di mercato (valore delle azioni X numero di azioni) deve essere almeno pari a 5 milioni di euro
- Il flottante (percentuale del capitale sociale scambiato sul mercato di Borsa) deve essere almeno pari al 25% del capitale totale
- La società deve aver reso pubblici almeno 3 bilanci annuali
- L’ultimo bilancio pubblicato deve essere sottoposto a revisione contabile da una specifica società di revisione, la quale avrà il compito di controllare anche i successivi bilanci che andranno redatti almeno ogni 3 mesi
- Il numero minimo di azioni emesse deve essere pari a 100.000
Ci sono poi altri requisiti di natura più tecnica sul quale non ci soffermiamo. Supponiamo che la Zeta.spa, in seguito a 3 anni di esercizio, soddisfi i requisiti richiesti per essere quotata in Borsa. Cosa deve fare il nostro trio per coronare finalmente il sogno di entrare nel “jet-set” della finanza? Il primo passo è quello di rivolgersi ad uno “sponsor”. Lo sponsor è un intermediario finanziario che accompagna la società sia nella fase di preparazione alla quotazione che durante il primo periodo di permanenza sul mercato e mette il suo nome per garantire la qualità della società. Le banche di investimento e, talvolta, le SIM sono i principali sponsor a cui rivolgersi. Solitamente questi sponsor non operano da soli, ma bensì coinvolgono altre banche nell’operazione di IPO (Initial Public Offering ovvero Offerta Pubblica d’Acquisto) formando quello che viene chiamato consorzio di collocamento. In questo modo gli sponsor riducono i rischi e abbattono i costi. Il primo servizio offerto dallo sponsor è la cosiddetta origination. E’ la consulenza che le banche d’investimento offrono alle società che intendono emettere titoli sul mercato. La banca d’investimento può consigliare se emettere azioni o obbligazioni, a quale prezzo emetterle, come pubblicizzare in modo efficace i titoli da emettere o come risolvere controversie di carattere legale connesse ai numerosi requisiti imposti dalle autorità di vigilanza. La fase successiva viene chiamata roadshow e si tratta dell’attuazione del piano di marketing che pubblicizza la società al pubblico e ai principali investitori. Le società di comunicazione a cui si è rivolta la Zeta.spa pubblicizzano le offerte di titoli tramite avvisi di emissione pubblicati su internet o nei maggiori quotidiani, chiamati tombstone, poiché hanno la forma di una lapide. Gli sponsor stabiliscono un prezzo indicativo, l’investitore può scegliere di prenotare tali titoli ma la sua prenotazione non è vincolante poiché la banca si riserva il diritto di intervenire fino all’ultimo sul prezzo. Il giorno della quotazione sul mercato il prezzo delle azioni sarà compreso tra due valori, in modo da rendere elastica e naturale la formazione del prezzo definitivo, che rispecchierà quindi le intenzioni del mercato. Il consorzio di collocamento può offrire un servizio di underwriting ed in questo caso si impegna ad acquistare le eventuali eccedenze di titoli che il mercato non ha comprato, nel caso di semplice placement invece si occupa semplicemente di collocare gli strumenti sul mercato. Per quanto riguarda la determinazione del prezzo, l’argomento è decisamente complesso. I modelli più utilizzati sono il Price/Earnings Growth, il Price/Sales ed il Price/Book Value sui quali però non ci soffermiamo ora data la forte componente quantitativa dell’argomento.
L’IPO più attesa nei mercati borsistici internazionali è senza dubbio quella del colosso Facebook. Sarà la prima società ad abbattere la barriera dei 5 miliardi di capitalizzazione, infatti si stima che possa essere valutata tra i 75 ed i 100 miliardi di dollari e le azioni potrebbero avere un prezzo compreso tra i 40 e i 50 dollari. La società ha 3200 dipendenti, nel 2011 ha ottenuti ricavi per 3,65 miliardi e utili per 1 miliardo. Il consorzio di collocamento sarà formato da Morgan Stanley, sponsor principale, e da Goldman Sachs, JP Morgan, Bank of America, Barclays e la boutique d’investimento Allen & Co. Tuttavia nell’ottica dell’azionista, investire in azioni Facebook desta più di una preoccupazione. In primis le stime di capitalizzazione sono state effettuate incorporando un tasso di crescita prospettico riferito agli ultimi 8 anni e ci si chiede se Facebook continuerà a crescere a questa velocità anche nei prossimi anni, prospettiva che vedo abbastanza ardua considerando l’agguerrita concorrenza. Inoltre data la “stazza” della società e l’attesa che si è venuta a creare, non mi sorprenderebbero eventuali bolle speculative peraltro non nuove ai titoli tecnologici. Vi sono poi le controversie riguardanti la privacy, ancora lungi dall’essere risolte, che potrebbero fortemente penalizzare il titolo.
Cristiano Ventricelli
L'Odissea greca
“Greco e italiano, una faccia una razza “ , è questo che noi italiani sentiamo continuamente ripeterci ovunque in Grecia, dal pescatore delle Cicladi al camionista di Salonicco. Per alcuni è forse soltanto un modo di dire, altri lo interpretano come un messaggio di fratellanza, di condivisione del futuro. Sono punti di vista, variano in base alle persone, mutano a seconda delle circostanze. Ufficialmente tutto è cominciato nell’ottobre del 2009 quando il premier greco Papandreou si insedia dopo la vittoria alle elezioni politiche. Il primo ministro, figlio d’arte, eredita un paese disastrato, scopre nei conti pubblici un enorme buco di bilancio. Nel 2009 il deficit greco era dichiarato al già grave valore del 6%, in realtà si scopre che sfiora il 13%, una cifra di proporzioni apocalittiche. Non soltanto perché ciò rivela un cancro nel paese, purtroppo in stato avanzato, la cui unica cura è una chemioterapia che potrebbe portare più danni che benefici, ma perché la Grecia era ed è uno stato dell’Unione Europea. La spesa pubblica del paese superava quindi enormemente le entrate fiscali, Papandreou si accorge che se i greci vogliono continuare a rimanere nell’Eurozona, dovranno affrontare sacrifici pesanti. Questo enorme indebitamento del paese è perlopiù riconducibile alle ingenti spese affrontate per le Olimpiadi di Atene del 2004. E’ paradossale come la causa delle disgrazie dei greci sia uno degli eventi che da sempre, in quanto originari ideatori, li ha riempiti di gloria .Dalla fine del 2009 all’estate scorsa si susseguono vari avvenimenti, tutti dal sapore amaro. Il premier greco annuncia più volte piani di rientro del deficit in 2, 3, 4 anni. Chiede aiuto all’Unione Europea più volte, fin da subito. Papandreou non nasconde mai il grave problema davanti ai partner europei, e questo gli fa onore.
Disonorevole è invece il comportamento della Germania, in primis della Cancelliera Merkel. Inizialmente il governo tedesco, temporeggia, non vede, o finge di non vedere le negative conseguenze di una mancata risoluzione del problema. Angela Merkel perde così all’inizio tempo prezioso, per paura di perdere le elezioni regionali in Sassonia. Una grande prova da statista quella della cancelliera, certo che dopo Helmut Kohl si poteva solo scendere di livello, ma così in basso è davvero dura, anche impegnandosi. Il tempo passava inesorabile quindi, i greci cominciavano solo vagamente a realizzare l’enorme prezzo da pagare per colpe di tutti meno che loro. Discutere delle colpe appunto, oramai non credo serva più a molto. Le maggiori e le più esplicite sono del governo greco di centrodestra, quello precedente all’esecutivo Papandreou, dispiace che oggi i greci dimostrino un’orientamento decisamente a favore del centro destra, penalizzando ingiustamente l’unico statista di quel paese, Papandreou, che ha avuto l’unica colpa di trovarsi alla guida di un stato al capolinea. Le cause esogene della crisi greca ci sono certamente, dalla miopia della Commissione Europea nell’accettare la Grecia nell’Eurozona, senza individuare le falsificazioni dei documenti di bilancio, all’assistenzialismo da sciacalli che Goldman Sachs ha riservato al governo greco, e che quest’ultimo ha, colpa ancor più grave, accettato e tollerato. Nel corso del 2010 la piccola Grecia subisce declassamenti continui da parte di Standard & Poor’s e delle altre agenzie di rating, fino ad arrivare al livello più basso, fino a considerare i suoi titoli degli junk bonds : spazzatura. Il governo in carica nella democraticissima Atene vara severi piani di austerità, basati essenzialmente sul taglio della spesa pubblica, che inginocchiano la popolazione e servono a ricevere i prestiti europei. Il tempo passa, Fmi, Bce e Commissione Europea continuano a dissanguare il malato ellenico senza risultati. Giungono addirittura a proporre un commissariamento, dopo aver impedito che Papandreou tenesse un referendum nel quale la popolazione greca doveva rispondere se voleva ancora continuare a restare nell’UE. Se qualcuno pensava che il problema fosse il governo, la risposta è no. Nel novembre 2011, dopo le impietose figure dei leader europei davanti al mondo evoluto, al G20 di Cannes, il primo ministro greco diventa l’economista Lucas Papademos. Il governo di cui quest’ultimo è a capo, sostanzialmente invariato, ha approvato qualche giorno fa l’ennesimo piano di austerity richiesto dalla Troika ( Bce, Fmi, Commissione Europea) che fiaccherà definitivamente i greci, per ricevere un aiuto finanziario di 130 miliardi di euro, che non gli basterà e non gli servirà. Questa non è la soluzione, appare evidente oramai a tutti, ai politici come ai più autorevoli economisti. Pochi sanno che Germania e Francia diversi mesi fa hanno imposto al governo greco l’acquisto di navi da guerra e altri prodotti bellici, un investimento da superpotenza, non esattamente ciò di cui in questo momento aveva bisogno la Grecia. In questa incompiuta Europa ognuno pensa per sé, sfacciatamente. Manca solidarietà, domina l’ingiustizia sociale, l’egoismo tedesco e il nazionalismo francese sono i sentimenti anticomunitari in prima linea. Nell’improbabile caso che la Grecia sopravviva alla sua crisi, subito il Portogallo sarà al centro del ciclone, e così via tutti gli altri paesi dell’Eurozona finiranno nel mirino dei mercati.
A mio avviso è chiaro che la soluzione non si può ricercare nel far espiare a ciascun stato i propri peccati fiscali a costo di ucciderlo. Il problema fondamentale in questo caso, come in tutti gli altri che riguardano il Vecchio Continente, è la mancanza di unità politica. La California ha un deficit pubblico alle stelle, è stata per parecchio tempo sull’orlo della bancarotta, si tratta di cifre assai maggiori della Grecia, visto che la California se fosse uno stato autonomo siederebbe a pieno titolo tra i primi otto paesi più industrializzati, probabilmente scalzando proprio noi italiani. Il Golden State tuttavia non è finito nel mirino dei mercati, nessuna agenzia di rating si è sognata anche solo di studiarlo. La risposta è fin troppo ovvia: la California fa parte di un’unione federale, politica. L’Europa manca della forza primaria, quella politica, è disunita. Questo è il principale motivo per il quale la sua condizione, il suo futuro, il nostro avvenire, è nelle mani dei traders di borsa. Il Vecchio Continente ha perso autorevolezza, è attaccabile, risulta debole agli occhio del mondo. Non si sa chi decida che cosa in Europa, dove una Banca Centrale con le mani legate dietro la schiena tenta di salvare il salvabile, dove un Parlamento, unico nella sua internazionalità, ha compiti perlopiù meramente propositivi. Un’Europa dove ufficialmente il leader è il presidente della Commissione, ma in realtà a comandare, ed anche palesemente in malo modo, ci pensa il duo franco-tedesco. Henry Kissinger si è sempre lamentato di non sapere quale numero si dovesse fare per chiamare in Europa, come dargli torto. L’Unione Europea è un progetto incompiuto, e non andrà certo a compimento se continua ad essere governata da pseudo leader con corte vedute politiche che mortificano ora la Grecia, domani il Portogallo. Questa non è l’Europa sognata dai padri fondatori, Altiero Spinelli si starà rivoltando nella tomba.
Luca Orfanò
Quello che gli italiani non capiscono sulle liberalizzazioni
Come sempre succede in Italia, il popolo piange incessantemente lamentandosi di ciò che non va. La tendenza al vittimismo è ormai radicata nella cultura del Bel Paese, un po’ come la propensione all’evasione fiscale o la perversa e morbosa attenzione alle stragi o agli omicidi, che assumono la caratura di colossal cinematografici. Tuttavia gli italiani, non solo non muovono un dito per tentare di migliorare le loro attuali condizioni, ma nel momento in cui (dopo 20 anni) arriva un governo con una parvenza di piano strategico da attuare per evitare all’Italia un fallimento equiparabile a quello ellenico, ecco che allora si scende in piazza a protestare, si bloccano le città, si sciopera a ruota libera. Liberalizzazione è diventato sinonimo di olio di ricino a quanto pare. Oggi tenterò di spiegare perché le liberalizzazioni sono essenziali per garantire lo sviluppo e la crescita, per evitare che l’enorme macigno fiscale che dobbiamo sorreggere sulle nostre spalle non ci abbatta a terra, ma anzi si riveli un po’ più leggero. Per spiegare l’effetto delle liberalizzazioni sulle tasche degli italiani, utilizzerò un esempio di una sconcertante banalità.
Prendiamo Mario come soggetto del nostro esempio. Mario è un notaio di Milano e nei prossimi mesi vedrà una diminuzione del suo fatturato dovuta all’abolizione del tariffario minimo per i professionisti (come anche avvocati e commercialisti) e all’aumento del numero di notai sul mercato, che inevitabilmente porterà a maggior concorrenza, quindi ad una diminuzione dei prezzi. Supponiamo che il fatturato di Mario diminuisca di 10 su base mensile. Mario avrebbe tutte le ragioni del mondo per essere furibondo e per annegare la sua rabbia nell’alcool. Tuttavia sulla strada per il bar, Mario decide di prendere un taxi perché sua moglie gli ha fregato la macchina a causa di un impellente bisogno di Manolo Blahnik con tacco verniciato. Alla fine della corsa Mario si accorge che i taxi sono diventati più economici, per lo stesso percorso avrebbe speso circa 5 in più fino ad un mese prima. Una volta sceso dal taxi, Mario assiste impotente al remake de “L’arca di Noè”: un diluvio di proporzioni bibliche si abbatte su Milano. Mario chiama sua moglie chiedendole gentilmente di raggiungerlo con la macchina. Una volta arrivata sua moglie, Mario nota senza alcuna sorpresa che la macchina è in riserva e si avvia al primo distributore per effettuare il rifornimento. Anche in questa occasione Mario rimane meravigliato dal fatto di aver speso 5 in meno rispetto ai precedenti rifornimenti. Le liberalizzazioni sul settore carburanti hanno obbligato i petrolieri a mettere sul mercato un terzo degli impianti presenti in Italia. Sul tragitto di casa Mario si trova a discutere animatamente con sua moglie che si è stufata di dover dividere la macchina con il marito. Ormai allo stremo delle forze (litigare con una donna prosciuga la stessa quantità di energie necessaria a spaccare la legna un giorno intero) Mario cede e si reca in un concessionario per acquistare un SUV per la adorata mogliettina (un’utilitaria per fare shopping? E lo spazio per le borse?). Al momento di stipulare la polizza di assicurazione, Mario nota con piacere che le tariffe si sono considerevolmente ridotte, di circa 5 su base mensile rispetto all’anno passato. E’ l’effetto delle norme contenute nel decreto liberalizzazioni, che riducono del 30% i risarcimenti in denaro per l’assicurato, rendendo quindi meno appetibile l’ipotesi “truffa”. Riducendosi il numero delle truffe le compagnie di assicurazione possono quindi abbassare il prezzo delle tariffe.
Limitandosi a considerare le situazioni sopra elencate (le liberalizzazioni si estendono su molti altri settori che abbiamo ignorato) Mario su base mensile perde 10 in termini di fatturato e recupera 15 grazie alle minori spese che sostiene. Ecco a cosa servono le liberalizzazioni. Riducono i rallentamenti burocratici privilegiando la flessibilità e la competitività, creano posti di lavoro, migliorano la qualità dei servizi erogati e ne riducono i costi. Come è possibile essere contrari a tutto ciò? Le perplessità che possono sorgere in merito sono relative non alle liberalizzazioni in senso assoluto, ma all’applicazione delle suddette norme a TUTTI i settori indistintamente. Questo è un tasto dolente poiché sembra che il Governo sia titubante e impaurito dall’enorme influenza delle aziende energetiche, delle istituzioni finanziarie o dalle compagnie petrolifere. Se questi settori riceveranno delle agevolazioni di trattamento o, peggio ancora, non verranno proprio toccati dal decreto allora si, il meccanismo si inceppa e il peso della manovra graverà sui soliti noti. Il governo tecnico che, per definizione, non deve soddisfare le esigenze di un elettorato specifico, dovrebbe essere caratterizzato da polso fermo e volontà ferrea di mettere in atto ciò che serve a TUTTI, senza farsi intimidire dalla potenza delle lobby. Non sono stati riscontrati accenni di timidezza, per usare un eufemismo, se si considera l’aumento (e che aumento) della pressione fiscale. Quello era lo stadio “salva-italia”. Ciò che tutti si augurano è che lo stadio “cresci-italia” possa davvero salvare non solo l’Italia intesa come stato, ma soprattutto noi italiani. Altrimenti saremo noi a dover dichiarare “default”.