Inserto economico di 
 

Il business non dorme mai / II

Preso atto delle condizioni in cui viviamo, che ci fanno da contorno, non posso fare a meno di citare Kant, che nella sua immensa opera nota come Critica della ragion pura, scrive:

Ogni interesse della mia ragione (tanto quello speculativo quanto quello pratico) si concentra nelle tre domande seguenti:

1. Che cosa posso sapere?
2. Che cosa devo fare?

3. Che cosa ho diritto di sperare? 

Tralascio il punto 1, perché credo che al fine di proseguire in modo lineare con l’intervento, i punti 2 e 3 siano più importanti. Chiaramente Kant, attraverso queste tre domande costruisce un pensiero filosofico molto complesso che non è mia intenzione esplorare; credo siano importanti proprio le domande in sé, e credo sia ancor più importante darsi delle risposte.

Cosa possiamo fare e cosa abbiamo diritto di sperare, dunque, in un sistema come il nostro, dove il Business non è più il Nostro Business, dove lo Stato non è più il Nostro Stato, dove il nostro scopo più intimo, ovvero la fantomatica ricerca della felicità, non trova più spazio in tutto ciò che ci circonda?

Darsi una risposta è estremamente difficile; io credo che essa stia, ancora una volta, in un’attività; ovvero nell’atto stesso di porsi la domanda e cercare di rispondere, ecco che stiamo effettivamente rispondendo. Riconoscendo il paradosso del sistema, constatando quanto sia difficile collegare l’origine del lavoro e dell’economia con quello che oggi è effettivamente il lavoro e l’economia, già stiamo facendo un passo avanti.

Sarò sincera, so quanto conti lottare per cambiare il mondo, ma so anche quanto profondamente possa apparire inutile al giorno d’oggi, dove il senso stesso di cosa dovrebbe essere il mondo è smarrito,(sono pronta ad accogliere critiche di chiunque, a differenza mia, non pecchi di post-modernismo) per cui credo che più importante sia il cercare di rivoluzionare dapprima il nostro sguardo verso il mondo, il nostro modo di vederlo, più che, almeno per il momento, il mondo stesso.

Dobbiamo inserirci nel sistema, non possiamo ritirarci, ma possiamo, tutt’al più, farlo consapevolmente. Possiamo scendere al compromesso di diventare merce di scambio, ma dobbiamo farlo tornando a casa, e guardandoci allo specchio, avere la forza di dire IO NON SONO QUESTO. Io sono il sorriso che si apre sul mio volto, sono le lacrime che verso, l’amore che provo, i libri che leggo, i sogni che ho.  Dobbiamo avere la forza di non far perire l’uomo aristotelico assetato di verità, conoscenza, giustizia e diletto che è in noi, dobbiamo opporre al Business, il nostro piccolo business, che non stabilisce prezzi, che non c’inganna, che dorme con noi, con noi si sveglia, con noi assegna i giusti valori alle cose.

Emile H. Gauvreay scrive “Abbiamo costruito un sistema che ci persuade a spendere il denaro che non abbiamo in cose che non necessitiamo per crearne impressioni che non dureranno su persone che non ci interessano”: questa è un’amara verità. Possiamo però rispondere a questo con il prenderne consapevolezza e distaccarcene, in attesa di trovare la forza, un giorno, se mai sarà possibile, di costruire un sistema alternativo, che meglio si sposi con l’altra faccia della medaglia, con l’atto di libertà, con l’Essere in rapporto al Divenire, che ci permetta di ritrovare noi stessi, di ricostruirci un’immagine, un ruolo nel tutto, un ruolo che la società di massa ha cancellato.

Molti sono stati i filosofi ad occuparsi di questo tema, soprattutto da ‘700 in poi, ma per pietà del lettore non vi farò ricorso; concludo soltanto dicendo che, probabilmente, dall’Economia nella sua origine, o οκονομία (Tesi) ora stiamo ancora sguazzando nel Business (Antitesi), in attesa di un terzo elemento, che possa conciliare e superare i due opposti (Sintesi).

Sì, dopotutto spero che Hegel abbia ragione, che dopo la crisi si ritorni in-sé e per-sé, arricchiti e più consapevoli.

Ma soprattutto, felici.

Elisabetta Ceroni




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