Inserto economico di 
 

Il business non dorme mai / 1


Vorrei cominciare questo mio modesto intervento proprio dal nome del blog per il quale ho deciso di scriverlo, poiché proprio questo elemento è stata fonte d’ispirazione per buttar giù queste righe. 


Sebbene per molti il confronto possa apparire forzato, ho pensato ad Aristotele, il gigante della filosofia greca del IV secolo a.C., il quale riteneva che l’uomo dedito allo studio e alla riflessione dovesse, per necessità, riposare ed abbandonare la sua attività intellettuale per qualche ora, ogni giorno, poiché un comportamento inverso avrebbe recato danno all’attività stessa, rendendola sempre meno produttiva. Questa era  la vita ideale per Aristotele, divisa fra studio, riflessione, e svago. 

Qualcuno potrebbe obiettare affermando che già erano pochi a poterselo permettere alla sua epoca, e ancora meno sono coloro che potrebbero farlo al giorno d’oggi (motivo per il quale i grandi filosofi, in epoca contemporanea, non esistono più). Alla suddetta ed ipotetica obiezione, tuttavia, mi sento di rispondere che il ricorso ad Aristotele è per me significativo, non tanto per dipingere quello che potrebbe essere lo stile di vita ideale dell’uomo, bensì per  focalizzarmi su come egli avesse individuato nella riflessione e nel diletto le due buone inclinazioni dell’animo umano, e su come egli suggerisse di assecondarle e gioirne nel farlo, per il proprio benessere, per la propria felicità, che deve essere l’unico fine delle nostre azioni (non si cada in errore, Aristotele non era un solipsista, né tantomeno un egoista ed un individualista; la mia felicità corrisponde alla Felicità, che tutti perseguiamo razionalmente, o almeno dovremmo).

Ora, si può certamente non condividere la visione aristotelica sopra esposta, ciò nondimeno si dovrebbe notare come l’espressione “Il Business non dorme mai” sia significativa proprio perché si oppone radicalmente al pensiero del filosofo classico: il Business, appunto, non riposa, non attende, viaggia costantemente, cambia, si dirama a velocità sorprendente.

E cos’è il Business se non la proiezione di una delle nostre attività, con le quali ci affermiamo nel mondo, lo plasmiamo, lo modifichiamo per sentirlo a noi più vicino, per interpretarlo, o, più semplicemente, per viverlo?

Questo, appunto, mi fa sorridere: il Mercato non dorme mai, ma il Mercato siamo noi.[1] .

Ho scritto Mercato e Business (che propriamente è traducibile con Affare/i, ma in questo caso possiamo paragonare i due termini) con lettere maiuscole volutamente, per conferir loro unità concettuale, per dar loro un valore, che sicuramente trova origine nella nostra natura, ma che paradossalmente, rischia di diventare la causa dell’alienazione dell’identità, del soggetto stesso che l’ha concepito, dell’uomo aristotelico che non abbiamo cessato di essere. Possiamo infatti cessare di riflettere? Possiamo cessare di farci domande? Possiamo cessare di dormire, dove per dormire s’intende dimenticare la vita per viverla ancora di più, per abbandonarci alle sorprese che ci regala? Possiamo smettere di voler essere felici? No, non possiamo. Eppure abbiamo forgiato una società dove le parole d’ordine sono Velocità, Produttività, Efficienza…Per cosa, poi? E’ questo il vero benessere? Parmenide direbbe che abbiamo abbandonato la via dell’Essere per gettarci nel Divenire, nel Non-Essere, Martin Heidegger direbbe che abbiamo smarrito il Senso.  (Per ogni filosofo, in ogni epoca, si era smarrito il senso dell’Essere, e a questo serviva e a mio avviso servirebbe ancora la filosofia: a riacquistarlo).

La verità è che abbiamo bisogno di fare le cose senza uno scopo, o meglio, con l’unico scopo di gioirne, ma nel mondo odierno ciò pare una blasfemia; una volta nati, gettati nel mondo, dobbiamo crescere e percorrere tappe prestabilite, ognuna delle quali serve per inserirci al meglio nel sistema, renderlo più produttivo, “farlo girare”.  Siccome sono sicura che qualcuno starà pensando che in effetti Aristotele si discosti un po’ troppo dai canoni del nostro tempo, e in effetti non posso sotto certi versi non essere d’accordo, continuo la riflessione passando per Hegel o meglio ancora per Marx, i quali si concentrarono anch’essi sulla natura dell’uomo come attività, ma ne identificarono il fulcro nel lavoro, ATTO e NON MEZZO per conquistare la libertà, la massima realizzazione individuale, e proprio poiché atto libero, assolutamente privo di valore quantificabile.

Non è mia intenzione elogiare il marxismo, riprenderne tutti i concetti cardine che sono fin troppo noti, ma lo cito unicamente perché Marx, come Aristotele, difendeva la libertà, la felicità come unico fine, a cui nulla si deve anteporre e che soprattutto, non deve avere prezzo.

A questo si oppone il Business, l’eterno insonne: si oppone alla nostra naturale inclinazione a fermarci per un attimo e pensare a qualcosa per il gusto di farlo, e poterlo fare senza avere il timore che sia tempo buttato, tempo che non frutta, tempo come Anti-Denaro.

Beninteso, non sto sognando un mondo senza economia, ma sogno volentieri, sospirando, un mondo dove la parola “economia” possa riprendere, dal greco, il suo significato originale, ovvero gestione della casa, del bene familiare. Guardando i vari telegiornali, scorrendo gli occhi sulle notizie del giorno invece, noto come l’economia sia qualcosa di sempre più distante, inafferrabile, cieca ai nostri bisogni più prossimi, che corre più veloce di noi,  il Business che appunto, non dorme, e noi di rimando pensiamo, cercando di difenderci, che il modo migliore di fregarlo sia dormire ancor meno. E’ il nostro stesso istinto di amministrazione che abbiamo estremizzato a tal punto che siamo diventati anche noi beni amministrabili.

In questo periodo i grandi della politica internazionale stanno decidendo le sorti delle nostre case, del nostro futuro e di quello dei nostri figli (sperando che potremo permetterci il lusso di averne), e tutto ciò che ho da dire a riguardo è che è assurdo, alienante, disarmante. Ci svegliamo ogni mattina per studiare o per andare a lavorare (ovviamente chi studia lo deve solo fare in funzione del fatto che potrà avere un lavoro, ecc…), ci “prostituiamo” offrendoci ad un mercato del lavoro che tutto è meno che il nostro ATTO di libertà, poi torniamo a casa, accendiamo la TV e apprendiamo che il fantomatico Spread è di nuovo alle stelle, che il nostro Capo di Governo sta elaborando un piano di crescita di cui noi non potremo decidere NULLA, che la nostra sorte è in balia delle chiacchierate che pochi fanno al telefono gli uni con gli altri, gli uni contro gli altri, e ci sentiamo stanchi, e non dovremmo, e sapete perché? Perché sentirsi stanchi è un lusso, e noi siamo in CRISI e non possiamo permettercelo.[2]


[1] Personalmente, per quanto affascinante possa risultare, detesto la visione dell’economia smithiana e dell’espressione “mano invisibile”: ciò che di non naturale c’è nel mondo, è manifestazione dell’attività e del modo d’essere di chi lo popola e pertanto il Business è una nostra creazione, e se anche chi sta leggendo questo articolo non muoverà di sicuro nulla all’interno del mercato internazionale, c’è chi lo fa per voi, e lo fa anche coscientemente e minuziosamente


[2] A riguardo vorrei solo dire che, chi si ricorda la visione politica platonica, ovvero il sostenere che ad amministrare lo Stato dovessero essere dei professionisti, filosofi, una casta privilegiata di uomini il cui unico scopo dovrebbe essere quello di cercare il bene per tutti, non può non convenire con me sul fatto che tale casta NON Può ESISTERE e che questo governo tecnico ne è la prova lampante…

Elisabetta Ceroni


 

La finale si gioca a Bruxelles

In questo lungo giugno i leader europei si accingono a disegnare il destino dell’Europa e dell’euro. La prima è un sogno antico, nato tra grandi uomini, alla fine della Seconda Guerra Mondiale, il secondo è un traguardo parziale, sostenuto da persone di buon senso, osteggiato da uomini e donne altrettanto ottusi. Le tappe sono molte e ravvicinate in questo mese di inizio estate, e l’Europa non andrà in vacanza, è impegnata a sopravvivere. Il 17 giugno, fra nove giorni, avranno luogo le elezioni greche. Si spera siano definitive, i sondaggi variano di giorno in giorno, registrando complessivamente una risalita dei partiti tradizionali, favorevoli agli accordi sacrificali già stipulati con l’Unione. Confidiamo nella lungimiranza dei greci, nella loro manifesta volontà a rimanere nell’Unione e a detenere euro nelle proprie tasche. I due giorni successivi, 18 e 19 giugno, ci sarà il G20 in casa messicana. Sarà l’ultimo incontro diretto tra Obama, Monti, Hollande e Merkel. Sarà l’occasione in cui i primi tre insisteranno di nuovo e ulteriormente per un cambio di rotta nelle politiche europee. Il 22 giugno a Roma, Mario Monti ospiterà il Presidente francese e la Cancelliera tedesca in un pre-vertice, potremmo quasi dire per coordinare le idee, in vista del fondamentale appuntamento di fine giugno. Roma è propizia per i vertici europei, proprio nella Capitale cinquantacinque anni fa venne firmato il Trattato di Roma, pietra miliare della futura Unione Europea, ci sono rimaste solo più le coincidenze ormai…

La maratona di giugno si concluderà il 28, a Bruxelles, nel Consiglio Europeo. Sarà la partita decisiva, e verrà vista in mondovisione. A fine giugno molto probabilmente  sarà deciso il destino della Grecia e della moneta unica. Potrà essere sembrato un problema del Vecchio Continente questa crisi, fino ad ora, ma non è più così. I contraccolpi per la fiacchezza europea al di là dell’Atlantico si avvertono e non sono lievi. E anche in Brasile, in Cina, India e Sud Africa. Sta diventando un problema mondiale. Ciò non è dovuto alla superiorità mistica della razza bianca, sulla quale per secoli abbiamo fondato il nostro pensiero insano, ma bensì all’unicità dell’Unione, la quale rappresenta il più grande mercato unico del mondo, senza barriere commerciali. Una florida opportunità di commercio e investimento per i Brics e le altre economie emergenti. Il problema è che questo mercato vive la crisi più grande dalla sua nascita, soffre per la mancanza di liquidità. E se un paese emergente  perde il principale mercato dove negoziare i suoi prodotti, o li vende agli indigeni, o se li compra da solo, entrambe le alternative sono ben poco redditizie. Le difficoltà sono ancora maggiori per paesi, come gli Stati Uniti, che su quel mercato puntano una grossa percentuale delle loro esportazioni, figuriamoci la Cina, la quale rallenta la sua crescita, che è pur sempre apocalittica, ma non più a due cifre. Assistiamo in questi giorni alle bacchettate rifilateci dall’amministrazione Obama, più che mai in apprensione per il futuro dell’Unione, oramai indissolubilmente legato all’avvenire del Presidente americano. E gli scolari europei, queste sgridate, per quanto umilianti esse possano essere, se le devono prendere. Le dobbiamo accettare. Lo facciamo perché anche di fronte all’evidenza qualcuno ancora si ostina a proporre soluzioni sbagliate, già sperimentate, e disastrose. Come ha magistralmente spiegato Paul Krugman in uno dei suoi oramai quotidiani editoriali dal New York Times a Repubblica, le ricette teutoniche non funzionano più. Due paesi hanno seguito alla lettera le direttive di Angela Merkel & staff per risanare i propri conti: Irlanda e Portogallo. Stanno peggio di prima. E’ qualcosa di talmente elementare la crisi europea che sarebbe sembrata quasi troppo facile da risolvere, se si fosse messo da parte l’orgoglio nazionale, anteponendovi il buon senso di cui molti non sono privi.
Ciò che il mondo si augura per il 28 giugno, è che dai palazzi di Bruxelles esca un chiaro piano di crescita. E un piano finalizzato alla crescita si fa spendendo. In Europa si deve spendere, c’è bisogno che il denaro ricominci a girare, perché di euro se ne parla sempre molto, ma se ne vedono sempre di meno. E’ una crisi di liquidità questa che attanaglia in primis il nostro continente. La Banca Centrale fa quel che può, non taglia i tassi di interesse perché il suo statuto impone un rigido controllo sull’inflazione, un pallino dei tedeschi da sempre. Draghi ha proposto un’unione bancaria europea in modo da unificare problema e soluzione, appena insediato tagliò i tassi di interesse alla minima e storica quota dell’1%, le risorse sono finite, d’altronde si chiama Mario Draghi, mica San Pietro. Tassi di interesse bassi significano un costo del denaro più basso, ma il denaro manca. Da Bruxelles si attendono piani di investimento che prevedano finanziamenti corposi: soldi alle imprese. Piani di industrializzazione per le zone in degrado dell’Europa, e subito. Cinquecento milioni di persone attendono fatti e non parole, è bene che i leader europei non li deludano. Ci sono buone basi, Monti e Hollande, sostenuti esternamente anche da Cameron, insisteranno fortemente su questo, e ne ricaveranno qualcosa. Obama si gioca la Casa Bianca in questi mesi, non è disposto certo a perderla per l’ottusità di una tedesca laureata in chimica. I leader europei seguano il consiglio del Presidente degli Stati Uniti, insistano, azzardino, minaccino, “mettano la Merkel spalle al muro”, purtroppo, aggiungo io, solo in senso figurato.


Luca Orfanò
 

La storia più antica del mondo

Il corvo ha tante facce, tanti nomi si interscambiano dietro il sinistro pennuto. Sono predatori, bramosi di potere, forse anche in cerca di verità, che danno la caccia alla iena della Città, la più subdola, la più vicina al vecchio Leone, che di lei si fida e dal quale lei succhia energia, ogni ora di ogni giorno, fino a sfiancarlo.

I paragoni naturalistici pare vadano di moda per quella che è la storia più affascinante degli ultimi anni, la vicenda medievale ambientata nel terzo millennio. Perché c’è un posto nel mondo che è sopravvissuto a tutto, c’è un’istituzione che ha governato per secoli, e continua ad alternarsi fra luci ed ombre nella città che un tempo fu dei Cesari. Perché la Chiesa è Cattolica, quindi universale, è Apostolica, perché fu un apostolo a porre la seconda pietra, ma è soprattutto Romana, perché è legata nelle viscere alla città che l’ha ospitata, si sono rese grandi a vicenda, sono inscindibili. L’ultimo mistero della sua storia infinita riguarda dei presunti documenti trafugati, secondo le prime indagini della magistratura vaticana, dall’Appartamento papale per mano del maggiordomo di Benedetto XVI, Paolo Gabriele. Quest’uomo dal nome santissimo, ora rinchiuso nelle celle vaticane, avrebbe secondo la versione ufficiale “spifferato” all’esterno, documenti e informazioni riservate, riguardanti vari aspetti, dai dottrinali più cari al Pontefice, ai logistici. Oltretevere sta avvenendo una rivoluzione, in miniatura, in silenzio, versione soft, com’è uso nei palazzi vaticani, dove in silenzio si smuove tutto, dalla piccola politica italiana a equilibri geopolitici su scale molto più grandi. E’ una lotta medievale per il potere, è medievale per il mistero che la contraddistingue, per l’autoritarismo che ovunque regna sovrano.
Si parte dal 2010, ma potrebbe essere anche qualche anno prima, o uno dopo,  una calda sera di un’estate romana. A casa del servile e passivo Vespa ( sì, quello dei plastici)  cenano l’allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, Pierferdinando Casini, l’ex ad delle Generali Cesare Geronzi e un quarto uomo. Non è un segreto chi fosse quest’ultimo, verso le 23 un berlina nera, targata Città del Vaticano, si allontana lungo Viale della Trinità dei Monti, a bordo siede il Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato Vaticano. 



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E’ il Cardinal Bertone che tira le fila, è lui la iena, che molti vogliono cacciare, e ai cui piedi tanti si prostrano fedelmente. Benedetto XVI lo volle al suo fianco dopo l’elezione al Soglio Pontificio, il teologo tedesco ha da sempre l’abitudine a circondarsi di persone di cui si fida, infatti il rapporto tra i due nasce molti anni prima. Il Cardinale, Camerlengo di Santa Romana Chiesa, è un uomo pieno di risorse, con conoscenze nei palazzi romani e fuori, lui guida la politica estera della Santa Sede, e lo fa con fermezza. In modo altrettanto inflessibile gestisce le questioni interne, l’ordine e l’equilibrio prima di tutto, fa bene i suoi compiti, da bravo salesiano quale è. Di De Gasperi si dice che si rivolgesse a Dio, mentre Andreotti parlava col prete. Il binomio è lo stesso, Ratzinger pensa a Dio e alla Sua Chiesa, Bertone invece è l’uomo terreno, è l’allievo mosso dall’ambizione, tormentato dalla brama di potere. Uno dei colpi da fuoriclasse, di questo porporato di serie A, è stato l’esilio di Carlo Maria Viganò. L’arcivescovo varesino, ricoprì dal 2009 al 2011 la carica di segretario del Governatorato della Città del Vaticano ( il Governo della Santa Sede). Svolse al meglio i suoi compiti, lo rivelano le cifre che riportano un avanzo consistente nel bilancio del Governatorato. I problemi arrivarono quando Viganò volle seguire il suo senso critico, la morale di un buon cristiano, lo fece scrivendo delle missive al Segretario di Stato Bertone, dove rivelava la mancanza di trasparenza all’interno dei vertici del Vaticano, denunciando con precisione molti aspetti. Fu come indicare al vampiro dove fosse il sangue: l’arcivescovo Viganò fu rimosso dal Governatorato e spedito a Washington come nunzio apostolico. Per essere maligni si può dire che ora conta in Vaticano come una suora. Chiedeva trasparenza Viganò, ma cancellare la segretezza è difficile nelle democrazie, figuriamoci in una monarchia elettiva. Il Camerlengo Bertone non si ferma, continua a tirare le fila della politica nei Palazzi Vaticani. Qualche giorno fa avviene la cacciata di Ettore Gotti Tedeschi dallo Ior.  Il banchiere, fedelissimo del Pontefice, viene chiamato da Ratzinger a ricoprire la presidenza della banca della Santa Sede nel 2009. Gli scandali del predecessore Caloia, il sentimento popolare che si intensifica contro la ricchezza tra i palazzi, spinge il Vescovo di Roma a far luce sull’Istituto per le Opere Religiose, che vale in Vaticano molto più della Cappella Sistina. Gotti Tedeschi agisce da subito, nomina un consiglio di sorveglianza, fa pulizia nella banca. E’ aiutato anche dalla legge antiriciclaggio introdotta da Papa Benedetto XVI nel dicembre 2010, tale norma porta lo il Vaticano nella white list delle nazioni trasparenti dal punto di vista finanziario. Insomma Gotti Tedeschi, al servizio di Ratzinger, fa un buon lavoro. Ma Bertone non può certo tollerare che qualcuno entri più di lui nelle grazie di Sua Santità, che qualcuno ricopra troppo potere nella gerarchia della Santa Sede. Fu così che il 24 maggio 2012, come per volere divino, Ettore Gotti Tedeschi viene sfiduciato ed estromesso dallo Ior.
Ci si potrebbe domandare perché mai Ratzinger, nel caso fosse contrario al modo di agire di Bertone, lo lasci fare. Benedetto XVI è un Papa vecchio, lucido ma anche stanco. Il teologo tedesco non ha intenzione di far iniziare un rovesciamento di poteri nella Santa Sede, screditando il Segretario di Stato. E’ un conservatore, preferisce mantenere gli equilibri presenti, vede il Conclave avvicinarsi. In Vaticano comandano da sempre i cardinali, l’eccezione Wojtyla è passata. Ratzinger ha fatto molto per certi aspetti, più del suo predecessore, ha aperto a Lutero, ha avuto una mano ferma nei confronti dello scandalo della pedofilia, mentre dobbiamo ricordare che Giovanni Paolo II tale vergogna la nascondeva. Le acque si stanno agitando per scegliere un altro successore di Pietro, le correnti dei porporati si ramificano, per poi infine addensarsi in poche fazioni. Intanto il corvo parla, sperando di sconvolgere i piani. Ma deve stare attento, prima o poi si stancherà di volare e scenderà a terra. La iena lo attende.

Luca Orfanò



 

Scorie di guerra fredda


Trecento feriti, almeno 108 morti, tra cui trentadue bambini, è questo il bilancio della strage di Hula. Nella cittadina siriana, del governatorato di Homs, si è consumata una delle ultime tragedie del paese ( i massacri si susseguono quasi giornalmente ).  Prima Hamah , poi Homs, ora Hula, in mezzo tante altre città, innumerevoli storie di altri mille villaggi tra le palme e il deserto, tra il fresco blu del Mediterraneo e il secco grigio delle alture del Golan. I massacri vanno avanti in Siria dal marzo del 2011, sull’onda della primavera araba. Un evento quest’ultimo, che ha cambiato radicalmente gli equilibri della regione, non siamo ancora in grado di capire se in meglio . In Siria si muore ogni giorno, lottando nei vicoli di villaggi immersi nel deserto e tra le piazze di grandi città, si muore sotto le bombe, per i razzi, per le torture. Assad, il presidente sanguinario, resiste. L’esercito è ancora in buona parte con lui, resiste soprattutto perché le opposizioni sono divise, resiste perché ha dalla sua i Mukhabarat ( servizi segreti e corpi di polizia speciale) , gli unici che saranno fedeli al regime fino alla fine.
I tentativi per fermare questi massacri, per porre fine alla guerra civile in atto da mesi in Siria, per dare una risposta alle richieste di libertà che con la lotta i siriani stanno cercando di conquistare, sono stati diversi, ma ognuno con esiti infelici. In febbraio il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite tentò una risoluzione per cacciare Assad, ma il veto di Russia e Cina fece fallire l’iniziativa. Nei mesi successivi l’ex Segretario Onu Kofi Annan ha incontrato i vertici del regime nel ruolo di negoziatore, tentando disperatamente un accordo per raggiungere almeno un cessate il fuoco. Ha ottenuto solo quello, ed è stato temporaneo, anche Annan ha fallito. Il Consiglio Nazionale Siriano, autorità politica in esilio, è diviso, e questo di certo non aiuta la causa del paese.


Ma se Gheddafi è morto, perché Assad che compie atti ben peggiori ancora vive? Soprattutto perché ancora governa? Perché non è stata proclamata una no fly-zone come in Libia?

La Siria è un paese molto diverso dalle altre nazioni del Maghreb teatri di rivolte popolari, è differente anche dai suoi confinanti arabi. A Damasco governano gli Assad da quarant’anni, prima Hafez il padre, poi Bashar il figlio. Essi sono alauiti, un gruppo religioso mediorientale, una minoranza rispetto agli sciiti e ai sunniti. Una minoranza soprattutto in Siria. Nel paese la maggioranza della popolazione è sunnita, una rivolta della masse, che è ciò che sta avvenendo, per le minoranze può diventare pericolosa, mortale. Assad non combatte più per il potere, lotta per la sopravvivenza, questa è la triste verità che si presenta agli occhi del mondo. E chi si batte per la propria vita non molla, non cede, a meno che qualcuno di più importante, di più potente, non gli garantisca la salvezza. Questo è il principale aspetto che differenzia il regime siriano da tutti gli altri, Mubarak e Gheddafi non combattevano per la vita, o almeno non inizialmente, Assad sì.

 

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La Siria si trova in una posizione geografica delicatissima, in mezzo a equilibri instabili. Da mesi fronteggia l’offensiva diplomatica e di supporto sanitario, che garantisce agli oppositori la Turchia, paese che si sta conquistando un ruolo di leadership nello scacchiere geopolitico, mentre l’Europa sta a guardare. C’è il Libano, terra di confine succube della Siria da decenni, e c’è Israele, con cui le tensioni non si sono mai placate. A sud c’è l’Iraq, paese instabile,  teatro di guerra sul quale appena ora è calato il sipario, ma la tragedia continua. Poi c’è l’Iran, il problema dei problemi nella regione, una quasi potenza nucleare nemica d’Israele sin da quando è nata, e alleata di ferro della Repubblica Araba di Siria. Questa è la situazione incandescente, la Siria è in mezzo. Se salta, saltano tutti gli equilibri, soprattutto se Assad dovesse cadere e non ci dovesse essere più un controllo del Paese fermo e sicuro, la Russia perderebbe l’unico alleato rimastogli in Medio Oriente. L’unico stato del Mediterraneo che ha permesso a Mosca di piazzare le sue basi navali. Putin deve fare molta attenzione, se perde la Siria saluta anche le basi navali. Eppure i russi sono gli unici, con l’ausilio degli Stati Uniti, a poter mandare via Assad. L’ipotesi più probabile è che gli venga offerto un esilio sicuro, garanzie per la sua famiglia, dopodiché potrebbe lasciare. Ma il problema rimane, chi mettere al suo posto? In Libia la sostituzione di Gheddafi è stato un problema fino ad un certo punto, in soldoni: la Libia si controlla meglio e conta meno. La successione di Mubarak è stata gestita dai militari egiziani abilmente, e comunque l’occhio di Washington sul Cairo è vigile, l’Egitto è un alleato che per l’America può rimanere tale. A Damasco le cose sono diverse, la Siria è una porta ben chiusa sullo scivolosissimo corridoio Iran-Israele. Serve per tenere buoni entrambi, il prezzo di questa calma fino ad ora l’hanno pagato i siriani. A giugno Obama e Putin si incontreranno e decideranno il da farsi. Come ai vecchi tempi, da Kruscev e Kennedy  a Gorbaciov e Reagan. Gli attori sono quei due, la Storia si ripete.


Luca Orfanò

 

Vivi più che mai

…Placido Rizzotto, Piersanti Mattarella, Peppino Impastato, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Emanuela Setti Carraro, Gaetano Costa, Pio La Torre, Calogero Zucchetto, Rocco Chinnici, Ninni Cassarà, Libero Grassi, Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Vito Schifani, Rocco Dicillo, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Matteo…

Ce ne sono state prima, fin dall’800, e ce ne sono dopo, fino ai giorni nostri. Sono le vittime di Cosa Nostra. Tra di loro ci sono persone semplici, uomini famosi, servitori dello Stato, liberi professionisti, politici, ragazzi…e anche un bambino, perché quando si muore a 15 anni sciolti nell’acido, senza aver vissuto la propria vita, si muore bambini, si crepa innocenti. Quindi cominciamolo a dire, a voce alta, che la mafia ammazza i bambini, li scioglie nell’acido, ammazza le madri, ammazza chiunque. Non esistono gli uomini d’onore, esistono gli uomini piccoli, quelli sono i mafiosi, uomini piccoli. Il 23 maggio di 20 anni fa, alle 17.58, come disse Giuseppe D’Avanzo, la Repubblica italiana è morta.

Quel giorno, come molti sanno ( e già questo non è poco ) Giovanni Falcone salta in aria sull’autostrada tra l’aeroporto di Punta Raisi e Palermo, con la moglie e tre agenti della sua scorta. Se lo aspettava o no, solo lui poteva saperlo, noi possiamo solo immaginare, supporre. Possiamo anche, però, cercare di capire chi era, a  modo nostro, come tanti hanno fatto, e come tanti faranno; l’importante al di là delle interpretazioni sarà continuare sempre a parlare delle sue idee, di quello che ha fatto, è così che vive da 20 anni, è solo così che può continuare a vivere.

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Giovanni Falcone è stato un precursore, oltre che un magistrato, oltre che una persona onesta. Falcone ha inventato l’antimafia, anche se con l’aiuto preziosissimo di altri, ne è stato l’ideatore, il regista. Un nuovo metodo di indagine, un approccio diverso al mondo mafioso contraddistinse il suo lavoro, quello di Borsellino, quello di Caponnetto, di Chinnici, di Cassarà. Intanto perché avevano assunto che la mafia esisteva, a differenza della maggior parte della magistratura siciliana, connivente, collusa. Falcone alla mafia ha dato un volto, lo ha dato non solo alla Sicilia, ma all’Italia e al mondo intero. Lo ha dato non solo parlandone, ma combattendola, da Palermo a New York, da Corleone a Rio de Janeiro. Lo ha fatto lavorando giorno e notte, senza nemmeno sentirlo il tempo, era il suo lavoro, il suo dovere. Servire la legalità, i cittadini, era suo dovere. Lo era servire lo Stato, sappiamo che lo fece con dedizione, ne siamo certi, non siamo assolutamente certi se lo Stato fece lo stesso con lui. Falcone e Borsellino sono stati i principali protagonisti del Maxi Processo, grande in termini di numeri, di imputati, testimoni, condanne. Grande perché fu il primo processo alla mafia, il primo processo che sentenziò condanne definitive per migliaia , sì migliaia di anni, centinaia di futuri ergastolani, centinaia di uomini piccoli, dietro le sbarre. Centinaia di criminali trattati per quello che erano, un colpo per Cosa Nostra, il più duro. Gli equilibri  in quel sistema sporco, che è la mafia, erano scombussolati, venivano a mancare importanti punti di riferimento. Il Capo dei Corleonesi sentì per la prima volta il fiato sul collo, e cominciò ad ammazzare, in continuazione e senza pietà, come aveva fatto quindici anni prima, quando conquistò il potere con le mani sporche del sangue di altri mafiosi. Cominciò dai pentiti, dalle loro famiglie, la sua furia era cieca. Dai parenti di Buscetta, a quelli di tanti altri collaboratori di giustizia, poi toccò ai politici, quelli che lo avevano tradito, quelli che non riuscirono ad impedire le condanne definitive del Maxi Processo, uno fra tutti, Salvo Lima. Poi, passata la rabbia per i pentiti, il disprezzo per i politici, venne l’odio per i nemici. Il nemico numero uno era Falcone, e per primo toccò a lui. Dopo la sua morte tutto cambiò, Palermo non era più la stessa, cerimonie toccanti, tanti pianti veri, ma anche tanti finti, molte coscienze sporche. “ Ho visto gente piangere così tanto che era una cosa assurda, nemmeno un rubinetto “ riporta l’amico magistrato Giuseppe Ayala . 
Dopo la morte di Falcone, Paolo Borsellino rimase solo.Borsellino aveva accompagnato Falcone in un percorso segnato, della cui destinazione entrambi erano consapevoli. Se lo Stato con Falcone era contro con Borsellino nemmeno se ne sentiva la presenza, contro o a favore che fosse. Non esisteva lo Stato, perché tutti sapevano, e tutti attendevano. Aspettavano di piangere un’altra volta, pensando che fosse l’ultima, sapendo che avrebbero avuto sulle coscienze un peso forse ancora più grande di quello di Falcone. 

A Quantico, in Virginia, ha sede il quartier generale dell’FBI. Nella piazzetta antistante l’edificio ci sono due statue. Una è di Thomas Jefferson, terzo Presidente degli Stati Uniti, l’altra è di Giovanni Falcone.

L’Italia è piena di eroi civili, che milioni di persone celebrano, ricordano e di cui raccontano,è anche ricca di centinaia di migliaia di persone che lavorano con dedizione, onorandone la memoria. Ma non è un Paese civile l’Italia, non lo sarà finchè sulle stragi del ’92 non verrà fatta giustizia, non lo sarà finchè non emergerà la verità anche su quelle precedenti, e  successive. Non lo sarà finchè non salterà fuori l’Agenda Rossa di Paolo Borsellino.

Luca Orfanò

 

La speranza

Le  notizie principali sono tre. Due tragedie ed una speranza. Le prime due sono tragedie innanzitutto per le vite umane che si sono portate dietro. L’una è un evento naturale, l’altra un episodio ancora troppo fosco per trarre conclusioni, possiamo solo sperare che gli inquirenti ne prendano gli infami autori. Come detto, la terza notizia è una speranza. Parliamo di quella, perché solo dalla sua concretizzazione  potranno arrivare le soluzioni dei nostri problemi. 

Si è appena concluso il G8 di Camp David. E’ stato un meeting diverso dagli altri, una svolta. Le questioni di cui discutere erano diverse, dall’Afghanistan alla guerra civile in Siria, dall’Iran all’isolamento della Corea del Nord. Argomenti rilevantissimi, ma che in questa congiuntura economica e temporale fanno solo da contorno al problema vero : l’Europa e il suo destino. L’incontro bilaterale di ieri  mattina tra Hollande e Obama è stata l’impronta politica di questo G8. Un’impronta di sinistra, progressista e riformista. Dai due leader sono arrivate parole chiare e decise: la Grecia deve restare nell’eurozona, e nell’Unione Europea. Fine della questione, senza se e senza ma, l’avvertimento è arrivato. Quella di Atene è la prova del 9, la prova della tenuta dell’Europa. Gli otto leader hanno redatto un documento in cui si sottolinea la necessità urgente e primaria della crescita, che non è la panacea di tutti i mali, ma è la cosa che manca, e che serve. Dal G8 è quindi uscito un indirizzo economico: finanziamenti per lo sviluppo, risorse alla Bei ( Banca europea degli investimenti ), grandi piani di industrializzazione per le zone depresse d’Europa. Da Camp David la ricetta economica è stata accompagnata da una missione politica. Il futuro del Vecchio Continente è la via federale, altre non ce ne sono. La Confederazione è un esperimento mal riuscito, le conseguenze sono visibili a tutti, esso lascia agli Stati nazionali troppa sovranità su molteplici materie, manca di una visione comune, soppianta l’interesse generale con quello particolare. La Confederazione porta alla guerra, gli Stati Uniti ne sono un esempio lampante. Nati come un gruppo di stati confederati in base agli Articles of Confederation , si prefiggeva per loro un destino cupo e complicato, che si materializzò nella Guerra di Secessione. Gli Stati Confederati sono nazioni unite da accordi, dai quali possono distaccarsi qualora i loro interessi particolari vengano meno. L’intento della Confederazione è un’unione politica meno vincolante e una maggiore autonomia statale, questa strada porta al conflitto tra nazioni.  E l’Europa nei conflitti è maestra di lunga data.

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La via è la Federazione tra Stati, così come inizialmente fu concepita dai padri fondatori dell’Unione, da Schumann a Monnet, da De Gasperi ad Adenauer, fino a Spinelli e al suo manifesto europeista . La Federazione unisce, lega indissolubilmente i destini dei popoli, le azioni e le loro conseguenze. L’unione federale deve essere un atto costituzionale, inscindibile. Un’ unione di questo tipo è un percorso complesso, pieno di ostacoli, dal quale però non si torna indietro, e questo sentiero è già stato imboccato, dietro c’è solo il baratro. La Federazione di Stati europei dovrà essere una realtà pluralista, intransigente verso i colpevoli e accogliente verso le vittime. Dovrà rappresentare il traguardo per una società migliore, punto di arrivo per profughi di un mondo intriso di violenza e ingiustizie. L’Unione vincerà se rappresenterà i deboli prima dei forti, se saprà guardare al Mediterraneo e alla sua sponda meridionale con speranza e convinzione, non con paura, come un’opportunità , non una minaccia. L’Unione dovrà essere l’Europa dei giusti, dovrà saper pescare nel suo passato, riportando alla luce le conoscenze, le idee e i pensieri degli uomini che l’hanno fatta grande. Non sarà l’Europa sanguinaria delle tirannie del Novecento, sarà la sapienza di Platone e la ribellione di Lutero, il genio di Michelangelo e Beethoven.  Fonderà il suo pensiero economico cogliendo il meglio da Marx e Smith, filosofi di serie A, diremmo oggi. Ma soprattutto dovrà essere un’Europa democratica, non solo nei seggi elettorali, ma dalle azioni più ovvie alle decisioni maggiormente impegnative. Sono preoccupanti le derive autoritarie che stanno sbocciando in diversi Stati membri, vanno stroncate con fermezza, per il bene di tutti. In questo senso sembrano andare le intenzioni di Hollande , il quale dovrà dimostrare di essere capace di sostenerle negli imminenti  vertici europei. Deve farlo per il bene della sua Francia, per il futuro della nostra Europa.

 Elezione diretta del Presidente della Commissione Europea, maggiori poteri al Parlamento, ulteriore cessione di sovranità degli Stati nazionali, una Costituzione ufficiale, non ufficiosa, dalla quale i francesi in primis non si smarchino più, un Esercito comune, un unico indirizzo di politica estera ( arduo compito considerato che all’Onu pure le isole Tonga hanno un seggio come nazione, l’Ue ce l’ha come osservatore…). Questi sono solo alcuni dei provvidementi che vanno presi, tempestivamente e chiaramente a Bruxelles nei prossimi mesi, e l’agenda sembra andare in questa direzione. L’Europa c’ha salvato dalla guerra, perché sulle macerie dei due conflitti mondiali è nata, la via è ancora lunga perché la creatura è incompiuta. Ma va percorsa celermente, perché l’Unione porta la pace. Sul confine franco-tedesco sono andate in scena alcune della battaglie più cruente della storia,  dalla Somme a  Sedan.

Quel confine ora non c’è più, nei pressi sorge il Parlamento Europeo. Non possiamo fermarci adesso.



Luca Orfanò

 

Le Termopili del terzo millennio

La situazione è grave, mai come adesso. E l’agnello in mezzo ai lupi è sempre lei, la Grecia. E’ fresca di Bloomberg la notizia delle peripezie operate da JP Morgan in materia di derivati, chissà perché va a finire sempre male, che non se la cavino più così tanto bene?

Un sondaggio di due giorni fa riporta che circa il 71% dei greci auspica che si faccia di tutto per formare un nuovo governo. Ben il 78%  di loro è fermamente convinto che la Grecia debba restare nell’Unione, ma soprattutto, nell’euro. Sono dati confortanti, Atene è la capitale di un Paese europeista, abitato da europeisti. Dopo tutto il primo passo è crederci. Il percorso sarà durissimo e incerto, ma è l’unico possibile. Senza l’euro la Grecia è destinata ad un oblio prolungato, ora stanno male, senza starebbero peggio. Il percorso sarebbe tutto in discesa, ripido, dritto verso il regno di Ade. Una decisione di uscita dall’euro andrebbe formalizzata a Bruxelles, a quel punto accadrebbero due cose simultaneamente, due batoste, le prime. Fmi e Ue bloccherebbero i 130 miliardi di aiuti, e soprattutto verrebbero congelati i fondi per lo sviluppo ( 22,4 mld al 2014 ). Secondo scalino: la Banca Centrale ellenica dovrebbe convertire tutti i suoi depositi nella valuta precedente, la dracma, all’ultimo tasso di cambio ( 1 euro = 340,75 dracme ) . Basta sapere fare le quattro operazioni per capire che quei quattro soldi che i greci ancora posseggono perderebbero miseramente valore, si verificherebbero assalti di massa agli sportelli e ai bancomat, che andrebbero sigillati. Stime del Tesoro prevedono che il Pil diminuirebbe di un quinto in un anno, la disoccupazione aumenterebbe e l’inflazione volerebbe al 20 % . Tradotto : il governo non riuscirebbe più a pagare pensioni e stipendi pubblici. Dicesi disagio sociale.


La corsa a ostacoli comincia ora. La Grecia ha nelle casse circa 2 miliardi di euro. Deve rimborsare bond per 450 milioni di euro, la quasi totalità di essi sono in mano a hedge fund. Significa che il rimborso del prestito non può essere contrattato, non c’entra l’Europa o il Fmi, la giurisdizione è internazionale e quei bond vanno rimborsati al 100%, senza possibili dilazioni di pagamento. 2 miliardi meno 450 milioni oggi fa 1 miliardo e 550 milioni. Considerato che non è l’unico prestito da rimborsare e che col resto in parte dovranno pagare gli stipendi, solo l’Olimpo li può aiutare. Le forze politiche del Paese devono assolutamente formare un nuovo governo, al più presto, devono dimostrare responsabilità, quella di cui hanno dato incredibilmente prova alcuni partiti italiani. Ad Atene la partita è decisiva, e la palla è nel campo della politica ora. Il partito di sinistra Syryza ha ottenuto un grossa percentuale di voti, ma non si è dimostrato capace, come gli altri, di formare un governo di emergenza per il paese. Se tornassero alle elezioni a giugno, tragedia inimmaginabile, vincerebbe con più del 20% dei voti, e diventerebbe il primo partito, la tentazione del suo leader di tornare alle urne è forte. Se la faccia passare, se tiene al suo paese, altrimenti capiremo che di sinistra non ha proprio niente.
  
L’Europa dal canto suo deve essere collaborativa. E’ vero che il futuro dei greci dipende solo da loro, ma bisogna aiutarli, a tutti i costi. Certe dichiarazioni di finti europeisti come Schauble   ( ministro delle finanze tedesco ) non aiutano. L’unico che sembra voler concedere ancora un po’ di tempo alla Grecia è Juncker, Presidente dell’Eurogruppo, ma il lussemburghese è solo, e ha annunciato le sue dimissioni, motivandole con l’impossibilità di lavorare per l’Unione sotto i diktat isterici di Berlino. Attenzione perché se salta la Grecia, è solo la prima pedina, poi toccherà a Portogallo e Irlanda, che i compiti a casa commissionati dalla Merkel li hanno fatti, e la situazione è peggiorata. Insieme abbiamo cominciato, insieme dobbiamo continuare.

 


La questione greca è purtroppo una macchia nella storia della neonata Unione, un’ombra di cui non sarà facile disfarsi. Inizialmente il debito greco era di 50 miliardi, un accordo cercato e voluto da tutti in Europa ( ma purtroppo solo Papandreou e pochi altri lo promossero ) avrebbe evitato tutto questo. Chissenefrega dei creditori internazionali, chissenefrega del firewall contro il contagio finanziario, il problema assume proporzioni ben peggiori ora. Ora che nessuno si è mosso, ora che un gruppo di pseudo statisti  incellofanati nei loro abiti scuri e nei loro tailleur ha creduto che il fiscal compact fosse la panacea di tutti i problemi, ora il problema è umanitario. In Grecia non si riesce a vivere, al di là dei negozi chiusi, al di là delle proteste di piazza, in tutto il Paese ci sono bambini che soffrono di malnutrizione, i rapporti sono dell’Unicef. E se l’agenzia Onu a salvaguardia dei bambini nei paesi disagiati del mondo finisce a fare un rapporto così critico su un paese dell’Unione Europea, allora vuol dire che abbiamo sbagliato tutto, allora davvero questa è l’Europa delle banche. 

Luca Orfanò

 

A scuola di tagli


Il Ministro Giarda, aiutato ( o sostituito ) dal Commissario Enrico Bondi, sta studiando la spending review. La tanto acclamata revisione della spesa pubblica, mediaticamente molto più efficace nell’accezione anglosassone, sembra essere il prossimo essenziale obiettivo del Governo Monti. I tagli della spesa pubblica riguarderanno vari ministeri. Le informazioni sono poche e vaghe, si parla tuttavia di decurtazioni a Difesa, Interni, Giustizia, Esteri e, immancabile, Istruzione. Ci auguriamo che i tagli di Giarda siano mirati, con la chiara intenzione di eliminare gli sprechi. Di tagli alla cieca ne abbiamo visti molti negli ultimi anni, Tremonti è stato un maestro esemplare di quest’arte. I dicasteri sotto esame sono tutti importanti, centrali, ma uno più degli altri si rivela strategico per il futuro del Paese mai come ora. Il ministero dell’Istruzione è stato il più martoriato dai tagli del precedente esecutivo, la scuola di pensiero si riassumeva in un fatidico “ Fatti un panino con la Divina Commedia”. Il MIUR è stato oggetto di una riforma che non si può definire tale, non tanto per i contenuti, che sono tutti da discutere, ma per l’impostazione. La Riforma Gelmini non riforma, taglia. Il Taglio Gelmini sarebbe stato un nome più appropriato. Tuttavia, aia iacta est , toccato il fondo, in teoria si può solo risalire. Nella scuola e nell’università italiana è pieno di talenti e di nullafacenti, di assidui lavoratori e di scalda-poltrone. Tuttavia un taglio generale delle risorse non è la via per salvaguardare gli uni e mandare a casa gli altri, anzi. I dati parlano chiaro: lo Stato spende per un bambino alle elementari 8 euro l’anno, 12 per un disabile. Cifre decimali del PIL sono destinate al finanziamento della ricerca. Nelle scuole primarie ci sono maestre che si ritrovano classi con più di 30 bambini, ai quali devono insegnare una decina di materie compresa educazione fisica, e di cui sono responsabili per minimo 6 ore al giorno. Alcune ci riescono pure, non sono maestre, sono superwomen. E’ arcinota la storia dei genitori che fanno la colletta per la carta igienica nei bagni, per gli strumenti didattici in classe. I bambini extracomunitari sono sempre di più e sempre di meno sono gli insegnanti di Italiano che dovrebbero accompagnarli nel percorso di studi. Si parla di crescita, di infrastrutture. Un ottimo inizio sarebbe inserire un programma di edilizia scolastica su scala nazionale. “ Chi apre una scuola chiude una prigione” diceva Victor Hugo. Basta fare un giro per le scuole d’Italia, quelle pubbliche, e dare un’occhiata ai dati, per rendersi conto che la Scuola Pubblica cade a pezzi.  Due edifici su tre hanno più di 30 anni, di questi solo il 22% è stato ristrutturato.  Mille scuole sono state costruite prima dell’800. Tremila sono sorte tra il 1800 e il 1920. Altro che Fori Imperiali.

Possiamo imparare molto guardando all’estero. I Paesi che in futuro svolgeranno ruoli da leader, sono quelli i cui studenti oggi sono in prima fila nelle classifiche mondiali. Per chi fosse interessato il giornalista Federico Rampini racconta molto bene le vicende di competizione tra i licei americani e quelli di Shanghai, indovinate chi vince. L’amministrazione Obama ha dovuto tagliare enormemente il budget destinato alla spesa pubblica, tuttavia il Presidente è stato categorico, salvaguardare Difesa e Istruzione. Obama ha capito che la sfida con la Cina non si basa sui missili nucleari, ma sui ragazzi dei banchi di scuola, sulle competenze scientifiche che i suoi acquisiranno più dei colleghi cinesi. Restiamo nella potenza asiatica. Sarebbe meglio quando si parla di Cina guardare oltre il Tibet, verso un qualcosa che fa meno notizia, ma arricchirebbe molto di più se fosse preso ad esempio. Il Governo di Pechino qualche mese fa ha varato un programma innovativo per l’istruzione . Ai migliori laureati nelle università del Paese vengono proposte cattedre di insegnamento nelle scuole, con salari superiori alla media, e già la media è superiore a quelli italiani. Mettono i migliori ad insegnare alle generazioni del futuro, che avranno nelle mani le sorti del Paese. Non c’è politica che miri alla crescita migliore di questa. Il Governo italiano prenda esempio. Tagli sì gli sprechi, ma reinvesta quei soldi nella scuola e nell’università pubblica, potenzi il settore della ricerca, avvii un generale programma di edilizia scolastica. Il denaro destinato all’Istruzione non è una spesa, ma un investimento, il migliore. Questa è la sfida del futuro, garantire la migliore istruzione pubblica con i migliori insegnanti, dalle elementari all’Università. L’impianto generale già c’è, la formazione degli studenti italiani è largamente superiore a quella dei colleghi europei, ma mancano le risorse per potenziare ancora di più tale formazione. I migliori ricercatori della Silicon Valley sono italiani, escono da Università italiane, Statali. Il nostro è un Paese pieno di bocconiani, ma senza una Bocconi. E’ questo il vero esercito dell’Italia, potenziamolo. 

Luca Orfanò

 

Vox populi

Et voilà.
 L’Europa delle commissioni, dei fiscal compact, dei board della BCE e dei mercati ieri è passata in secondo piano. Ha ceduto il passo alle cabine elettorali, che da Creta alla Normandia hanno lanciato segnali inequivocabili, ineludibili. Qualche giorno fa i laburisti hanno monopolizzato l’Inghilterra, lasciando solo Londra a Cameron e compagni, tuttavia le vicende inglesi ci riguardano fino ad un certo punto, e comunque le politiche lì si terranno fra tre anni. Si è votato in alcune regioni tedesche, dove la Merkel ha complessivamente resistito. Comincia ora la campagna elettorale tedesca, e non so quanto questa notizia sia positiva per l’intera Europa. In Italia i seggi hanno chiuso da poco, qui come in Germania, il peso delle amministrative è lieve, ma la campagna elettorale comincerà a breve. Una buona notizia arriva dalla Serbia, dove il candidato europeista è in testa e affronterà al ballottaggio lo sfidante nazionalista. Una lotta lunga un secolo quella tra i nazionalisti e i federalisti, che ha segnato i precari confini nell’Europa degli stati-nazione per poi cancellarli una prima e una seconda volta, definitivamente. Il vento del nazionalismo  soffia ancora nel Vecchio Continente,  spira da sud, da quella Grecia zittita e bastonata. E’ un voto di protesta quello ellenico, che manda in Parlamento un’estrema sinistra ottusa e un partito neonazista dalle idee agghiaccianti. I greci schiacciati dall’austerità di imposizione tedesca e il populismo di casa, hanno scelto il secondo. La “lezione “ elettorale è arrivata, ma l’esito della partita greca non è scontato. L’Europa dovrà render conto delle sue richieste ad un nuovo establishment insediato ad Atene, che dovrà dar conto ai partiti usciti vincitori dalle urne, i quali dovranno rispondere a cittadini affamati. Quindi quello che succede in Grecia ci riguarda ancora, e non solo a noi. Certo se a suo tempo la massaia di Berlino e il suo accompagnatore parigino avessero dato retta a Papandreou, lui sì uomo di Stato, potenziando il fondo Salva stati, pensando agli Eurobond e puntando quindi su una soluzione europea, forse ora avremmo qualche problema in meno, ma non è andata così. 

Se in Grecia il panorama si rabbuia sempre più, qualche speranza è giunta da Oltralpe. François Hollande ha vinto le presidenziali francesi, ora tirerà un’altra aria. Un politico di lungo corso il neopresidente della Republìque, un mix tra il socialismo idealista di Mitterrand e il concreto europeismo di Delors. Si definisce un socialdemocratico, o un socialista. Francamente non è rilevante come si definisce, ma quello che farà. Hollande vedrà Angela Merkel molto presto, batterà i pugni sul tavolo, ma il fiscal compact rimarrà, l’austerità resterà un punto fermo. Può fare molto però il Presidente socialista, deve fare di più. Deve puntare su un cambio di rotta, definitivo e audace. Dovrà mirare a risollevare un continente fiaccato, insistendo sulla crescita. Sarà suo compito portare al varo  piani per lo sviluppo per tutta l’Europa, investimenti in infrastrutture  su scala continentale. Sarà sostenuto da Draghi, e da Monti, il compito del premier italiano sarà il più difficile, quello di mediatore, siamo sicuri che lo svolgerà al meglio. Quello di Hollande non deve essere un piano politico, una promessa, un giuramento o un impegno, nulla di tutto ciò. Il lavoro del Presidente francese assumerà la caratura di una missione, una missione per far risorgere l’Europa intera, non solo la Francia . Avrà una responsabilità enorme, con l’aiuto di tutti i leader europei la svolgerà al meglio. Solo con l’unità di intenti e di provvedimenti dimostreremo di poterci risollevare, il tempo scorre e il mondo ci guarda, bisognerà far presto. L’Europa ha bisogno di politica e di politici, veri. Mario Draghi ha svolto, svolge e svolgerà un ruolo fondamentale come il più alto funzionario nelle istituzioni dell’Unione, ma Draghi risponderà sempre alla legge, e allo statuto BCE, come è giusto che sia. C’è bisogno di politici che rispondano agli elettori delle loro scelte, che si sveglino la mattina temendo più il disprezzo dei cittadini che le cadute in borsa. 

 Deve tornare la politica forte, quella delle idee, che punti al progresso economico, ma mai perdendo di vista la giustizia sociale. Queste elezioni, nei loro risvolti positivi e negativi, ci hanno fatto capire che ciò che accade ad un paese membro si ripercuote inevitabilmente su tutti gli altri, tutto ci riguarda, tutti sono indispensabili. L’Europa anche senza uno solo dei suoi stati membri è mutilata, è nulla. Come un fiore senza uno dei suoi petali. E’ tornata l’Europa dei cittadini.


Luca Orfanò
 

Buona commemorazione


Questo post ha una sola fonte, un’unica voce in bibliografia, l’articolo 1 della Costituzione Italiana, che così recita :

L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro.

La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione.

Queste due frasi contengono la risposta a tutte le domande, la difesa contro tutte le accuse, rivolte all’Italia e alle sue istituzioni. Per parlare di lavoro, usare la Costituzione è il miglior mezzo, il modo più alto in cui farlo. Viviamo un tempo in cui il lavoro è una rarità, un’entità aeriforme, indistinguibile. Il posto di lavoro svanisce come un bel sogno, la sua mancanza si avvera come il peggiore degli incubi. Perdere il lavoro è terribile anche per un solo giorno, e non per la sola ragione economica, pur importante più di altre in questo tempo di vacche magre. Chi perde il lavoro dimentica il motivo per cui si alzava la mattina, sente un sentimento di inutilità montare giorno dopo giorno dentro di sé. Chi perde il lavoro non riesce più a guardare negli occhi i suoi figli, sente il distacco di chi gli sta intorno. Perdere il lavoro è straziante, crea un vuoto in una vita magari prima piena di scopi e prospettive. Il lavoro non è tanto importante per la sua tipologia, che può piacere o non piacere, quanto per ciò che rappresenta. L’azione dell’uomo in ogni sua forma si esprime al meglio nel suo lavoro, manuale o intellettuale che sia. Il lavoro non è solo un fattore economico, una variabile che sale e scende in un grafico freddo e grigio. Il lavoro è parte della vita delle donne e degli uomini di questa terra. Il lavoro dà senso alla vita, come altre cose forse più importanti. E’ per questo che il diritto al lavoro, i diritti dei lavoratori, sono così importanti, perché è come se fossero i diritti dell’uomo, e come tali dovrebbero essere inalienabili. Togliere ad un uomo il lavoro è come privarlo della libertà di espressione, la sua vita si annulla comunque. E’ compito dello stato tutelare questo diritto. E’ compito di ogni Governo tutelare il lavoratore, non il posto di lavoro. La riforma promossa in questo senso dall’esecutivo Monti suscita una varietà infinita di polemiche. E’ importante che questa riforma venga varata presto, e che tuteli, come è nelle intenzioni del Ministro relatore, i lavoratori più che i loro posti di lavoro, e tutti non solo alcuni, come risulta ora. 

Oggi è il 1° Maggio, ma più che festeggiare, bisognerebbe commemorare. I dati sulla disoccupazione ci richiamano alla realtà, oltre il 30 % di disoccupazione giovanile, ci fanno capire che il lavoro manca, come mai è mancato fino ad ora. E se manca il lavoro manca la ragione sociale di tutti i cittadini. Il lavoro non è un dato statistico tirato fuori da una calcolatrice, è la base sociale del nostro Stato. La Repubblica è fondata sul lavoro. Il lavoro è il punto di partenza, la possibilità di ottenerlo deve essere garantita a tutti, ciò che attraverso esso, di qualunque tipo sia, possiamo fare, dipende esclusivamente da ciascuno di noi. L’Italia non è fondata sulle classi nobiliari, sulle caste, su prerogative generazionali, è fondata sul lavoro. Lavorare deve essere il mezzo attraverso cui ciascuno può realizzare i suoi sogni, le sue ambizioni, e la possibilità di lavorare deve essere garantita a tutti. Il lavoro non è una merce, perché la vita delle persone non si vende. Il lavoro è la storia di ogni singolo uomo, la narrazione della sua vita, il racconto delle sue relazioni, nessuno dovrebbe esserne privato. Il lavoro è una garanzia fondamentale, un diritto inalienabile. Non è la concezione di lavoro come è intesa nella Carta Costituzionale ad essere il problema, ma la sua mancata attuazione. La disoccupazione è per un Paese una ferita non meno profonda della discriminazione, del razzismo. Il lavoro contribuisce ad accendere una luce nella vita degli uomini, che di esso andranno sempre fieri, grazie a quello che col lavoro hanno vissuto, grazie a quello che col lavoro hanno fatto. L’uomo e il lavoro sono due metà separate che vanno ricongiunte nella figura del lavoratore, che muta nel corso dei secoli, a seconda del colore politico, ma rimane indiscussa la sua essenzialità. Lavorare oggi è addirittura un pericolo. Lavorando, cioè realizzando la propria vita, compiendo sforzi per raggiungere i propri obiettivi, si rischia di morire. Lavorando si muore, perché i diritti del lavoratore non sono difesi come altri. La tutela del lavoro non è meno importante della sicurezza di un intero Stato. Senza il lavoro si muore comunque. Tristissima è la vicenda degli imprenditori che si uccidono. Lavorare deve essere una gioia, non una sofferenza. 

Ognuno è libero di fare ciò che vuole della propria vita, ma il diritto al lavoro, la tutela sotto qualunque aspetto, di sicurezza, ma anche fiscale, deve essere garantita. Anche gli imprenditori, al pari degli operai, devono poter lavorare.  Non c’è Costituzione più moderna di quella italiana, che mette il lavoro al primo posto, non come merce di scambio ma come valore, ricchezza sociale. Anche la Costituzione tedesca è orientata in questo senso, entrambe insieme possono dare tanto ad un’Europa smarrita, sempre più fiscale e sempre meno sociale.


Luca Orfanò